Precisamente 15 anni fa, Dominique Moïsi, un’autorità nello studio delle relazioni internazionali, pubblicava un saggio che, sin dal titolo, offriva un’intuizione geniale: La geopolitica delle emozioni. In un 2009 in cui il mondo era ancora dominato dall’economia, sembrava inconcepibile che le risorse e la potenza di una nazione potessero essere determinate in base ai sentimenti.

Tuttavia, già il crollo delle Torri Gemelle aveva innescato un processo graduale che oggi appare del tutto evidente. Moïsi identificava tre “culture emotive” capaci di avvicendarsi tra loro e di delineare i tratti prevalenti di ogni società: la “cultura della speranza”, propria dei popoli che guardano al futuro con entusiasmo e determinazione; la“cultura della paura” che, una volta soddisfatte quelle aspirazioni, cresce nell’inquietudine di perdere ciò che si è ottenuto; e la “cultura dell’umiliazione” che prevale quando questi timori vengono ignorati dalla Politica e l’individuo si sente abbandonato al proprio destino.

Non si trattava di pura astrazione: per Moïsi, le emozioni occupano territori concreti. L’Asia, in cerca di un riscatto storico, si presentava come il “campo” della speranza, trainata dal miracolo economico Cinese e di altre giovani società piene di energie e risorse.
Il Medio Oriente pareva ancora vittima dell’umiliazione risalente agli accordi di Sykes-Picot del 1919, e i suoi popoli soggetti a decisioni altrui.
Infine l’occidente, sopraffatto, secondo Moïsi, dalla paura di perdere il primato delle idee che da millenni esportava in tutto il mondo. Nella geografia emozionale, Usa ed Europa erano passati dalle terre raggianti di auto-celebrazione alle lande depresse di auto-deprecazione.

Mediazione mediorientale

Nel 2024, rievocare il quindicennale dell’opera non è uno sterile esercizio celebrativo. Al contrario, si tratta di una necessaria riflessione su come sia mutata la “cartografia delle emozioni” in vista di un anno determinante per le agende geopolitiche: come minimo si dovrà far fronte a due guerre locali su cui si confrontano nuovi assetti globali, e ben quattro miliardi di persone andranno al voto tra Usa, Europa, India e Russia. Snodi cruciali nel processo di trasformazione di quei “confini emozionali” descritti da Moïsi.

In questo nuovo assetto, il Medio Oriente può dirsi ancora umiliato? Escludendo il conflitto in corso, abbiamo assistito in questi anni a come Paesi quali Emirati, Arabia Saudita, Bahrein, e Qatar si siano impegnati a sviluppare narrative nuove, con l’intento di smarcarsi dal tradizionale ruolo di produttori di materie prime.

Oggi si presentano come mediatori internazionali, mirano alla leadership tecnologica e ospitano Expo, mondiali di calcio e Cop28. In Asia, la speranza sembra invece sfumare nella paura: la crescita è più lenta del previsto, la curva demografica è in fase discendente e le ombre inquietanti di nuovi conflitti alimentano l’apprensione.

Umiliazione e rinascita

A questo processo di “traslazione delle emozioni” non resta immune l’occidente. Lo abbiamo per anni descritto come atterrito da diseguaglianze crescenti, travolto da un’immigrazione incontrollata e minacciato da autoritarismi arrembanti… ma forse il quadro è ancora più fosco.

La paura avrebbe potuto se non altro servire da collante per adunare gli sforzi, ma la politica non ha saputo cogliere questo stimolo e ora il rischio è di digradare verso l’umiliazione. Non solo non siamo più “guida del pianeta”, ma percepiamo come il governo delle nostre vite, collettive e individuali, sia ormai nelle mani di altri, ben fuori dai nostri confini.

Non tutto è perduto. Lo stesso Moïsi ci ricorda l’aspetto ciclico del processo: l’umiliazione può farsi di nuovo speranza, aprendo una nuova fase di crescita e riscatto. Il compito di guidare questa transizione spetta, ancora una volta, alla politica.
Prima però dovrà maturare la consapevolezza che le emozioni dei cittadini non sono solo desideri da soddisfare, ma delineano la mappa più larga di aspirazioni e ideali su cui tracciare i confini del nostro futuro.

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