Domenica scorsa Jean-Luc Mélenchon, candidato della France Insoumise, ha realizzato al primo turno delle elezioni presidenziali francesi un ottimo risultato, sfiorando il ballottaggio per soli quattrocentomila voti. Questo risultato è frutto di un processo lungo anni, che l’ha portato a catalizzare il voto di sinistra su di lui e la sua piattaforma, in una sorta di logica di voto utile.

Questo buon risultato, figlio di un ottimo radicamento territoriale e di una piattaforma organizzativa ben rodata, è anche frutto di un programma chiaro, riconoscibile, e chiaramente contraddistinto a sinistra. Tra i capitoli del programma, proposte di riforme istituzionali, scuola, ambiente, politica estera, ma soprattutto tanta economia.

Il programma

Le principali proposte economiche del programma di Mélenchon possono sembrare radicali, persino populiste, ai lettori italiani. Ma va innanzitutto ricordato che il ruolo dello Stato e il peso dello Stato Sociale sono già piuttosto importanti in Francia, e la loro presenza è generalmente accettata e condivisa da un’ampia fascia della popolazione.

Anche per questo, l’annuncio della riforma delle pensioni provocò nel 2018, insieme all’innalzamento delle tasse sulla benzina, una forte reazione popolare che sfociò nel movimento dei Gilets Jaunes.

Prendiamo ad esempio la proposta di alzare il salario minimo a 1400 euro netti al mese. In Italia, dove un salario minimo legale non c’è, questa cifra può sembrare esagerata e far sorridere. In Francia, in realtà, il salario minimo è attualmente di 1270 euro al mese netti. Mélenchon proponeva quindi un incremento del 10 per cento: sostanzioso, certo, ma non fuori dal mondo.

Una seconda proposta del programma riguarda la quota 100 “alla francese”: per chi ha quarant’anni di contributi, Mélenchon proponeva di riportare la pensione a 60 anni di età. Questa proposta è stata accusata di infattibilità dai suoi avversari, a causa del suo costo. Mélenchon, in tutta risposta, proponeva di finanziare la riforma – e altre misure del suo programma – tramite quella che chiama “rivoluzione fiscale”.

Si tratta di una serie di misure che tendono ad aumentare la progressività del sistema impositivo francese. Innanzitutto, abolire la “flat tax” sui redditi da capitale, tassandoli come i redditi da lavoro. In secondo luogo, reintrodurre l’imposta di solidarietà sulla fortuna (ISF).

L’ISF, introdotta sotto Mitterrand nel 1982 e abolita da Macron nel 2017, era una patrimoniale pagata dallo 0.9 per cento più ricco della popolazione.

Nelle intenzioni di Mélenchon non c’era solo la sua reintroduzione ma anche un aumento delle aliquote, così come l’introduzione di una componente climatica per tassare i grandi inquinatori. Per concludere col fisco, Mélenchon proponeva di ridurre le imposte sui redditi bassi e medi (sotto il 4000 euro netti al mese).

Parlare ai redditi bassi

Mélenchon proponeva inoltre di bloccare i prezzi dell’energia, del gas, della benzina e dei beni alimentari, seguendo l’osservazione che le grandi imprese francesi operanti in questi settori hanno ottenuto forti profitti negli ultimi anni e distribuito dividendi elevati ai loro azionisti.

Infine, il candidato di sinistra proponeva di introdurre un “assegno di autonomia” di tre anni per tutti i 18-25enni, compresi tutti quelli che frequentano la scuola professionale o l'università, di 1.063 euro al mese. L’assegno sarebbe stato limitato ai giovani autonomi – non l’avrebbero ricevuta quelli ancora fiscalmente a carico dei genitori. La copertura per questa misura sarebbe venuta da una tassa sulle eredità superiori a 12 milioni di euro.

Questo elenco di proposte, non esaustivo – mancano ad esempio tutte le misure relative alla disoccupazione – dà un’idea chiara dell’elettorato a cui si rivolge Mélenchon. Lavoratori, più che pensionati, dai redditi bassi e mediobassi, particolarmente preoccupati dall’aumento del costo della vita. E ovviamente giovani.

L’elettorato che l’ha premiato domenica scorsa corrisponde in effetti a questo profilo: Mélenchon è risultato il più votato tra gli elettori sotto i 35 anni, dai dipendenti pubblici, dai residenti delle periferie urbane.

Sono credibili queste riforme? Sono populismo irrealizzabile? Secondo gli avversari di Mélenchon, ovviamente sì. La piattaforma del candidato ha dal suo lato chiaramente indicato le coperture finanziarie per ogni misura, la maggior parte delle quali provenienti dalla riorganizzazione della fiscalità.

Da questo punto di vista, la reintroduzione dell’ISF e l’aumento delle imposte sul capitale sono misure accusate di favorire la fuga dei capitali all’estero. Si tratta di un argomento molto dibattuto, sul quale non c’è un vero consenso tra economisti, a causa della scarsità di studi sul tema a sua volta dovuta all’assenza di dati affidabili sulla mobilità internazionale dei contribuenti ultraricchi.

Resta il capitolo debito pubblico, quello cruciale. Perché Mélenchon non vuole sentire parlare di vincoli di bilancio, di trattato di Maastricht, di regole europee. «Se c’è da indebitarsi, ci si indebita»: si tratterebbe ovviamente secondo lui di «debito buono», per usare una definizione di Mario Draghi, ovvero debito principalmente dedicato a investire nella transizione ecologica.

Resta il fatto che, in caso di vittoria di Mélenchon, i rapporti con l’Europa sarebbero stati – per usare un eufemismo – non idilliaci.

Il peso della coerenza

Cosa può imparare la sinistra in Italia dal risultato francese? Innanzitutto, che la coerenza paga. Mélenchon si presentava quest’anno per la terza volta alle presidenziali. Per quanto il suo programma si sia aggiornato ed evoluto nel tempo, l’elettorato di riferimento e i temi di base sono gli stessi di dieci anni fa. E rispetto al 2012, Mélenchon ha raddoppiato la sua base elettorale, passando da poco meno di quattro a poco meno di otto milioni di voti.

In secondo luogo, che la radicalità dei temi non deve spaventare, se c’è un chiaro elettorato a cui si parla. Voler accontentare tutti, insomma, finisce per non accontentare proprio nessuno.

Insomma, l’esperienza di Mélenchon insegna che la sinistra non deve essere per forza governista, attenta al pareggio di bilancio, e interprete entusiasta delle direttive di Bruxelles. Gli anni berlusconiani hanno portato il Pd a interpretare questo ruolo, che ormai rivendica con orgoglio.

Eppure un pizzico di populismo, un po’ di promesse, di sogni, di utopie, elettoralmente pagano. A condizione che i leader politici che li propongono siano credibili. E forse è questo, la credibilità, l’aspetto più difficile da copiare.

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