C’è un lemma di un dizionario molto speciale, quello stilato dal semiologo Roland Barthes, che parla di amore ma parla secondo me anche di Genova. Nei suoi Frammenti di un discorso amoroso, Barthes descrive la fine di un amore come «un esilio dal nostro immaginario». Io sono nata nel 1983, nei giorni del G8 di Genova ero appena diventata maggiorenne. Con il 2001 comincia una lunga serie di guerre all’immaginario. Sono guerre globali e simboliche che attaccano i corpi ma soprattutto scardinano il senso, il nostro senso di orientamento nel mondo. La repressione di stato su chi ha protestato a luglio a Genova venti anni fa è stata non solo un assalto a persone inermi ma anche un attacco alla loro visione alternativa del mondo, e soprattutto alla capacità di condividerla, insieme. 

Guerre anomale, globali e simboliche

Da allora, di guerre anomale, globali e simboliche la mia generazione ne ha attraversate almeno tre. Come scrissi su MicroMega all’inizio della pandemia, io da giovane europea ho scelto tutte le mie battaglie ma neppure una guerra. Guerra: la hanno chiamata così, dopo il 2008, mentre lo spread schizzava e allora ci si doveva stringere tutti attorno alla bandiera, «stringere la cinghia». Nei giorni del 2011 che in Italia hanno condotto al governo Monti, la crisi finanziaria è stata resa nel discorso pubblico alla stregua di una catastrofe naturale; anche se le responsabilità erano politiche. Dieci anni fa scrissi del “rally ‘round the flag effect” messo in atto da media e politica: se lo spread è presentato come una minaccia esterna, alla stregua di una guerra, allora la nazione deve stringersi intorno alla bandiera; chi obietta diserta. Proprio la narrazione della crisi finanziaria come di una guerra spingeva a identificarsi col capo di governo e ad abbassare la soglia critica. 

Austerità, terrore e pandemia

Mentre la mia generazione e l’Europa vivevano quella «guerra», le classi dirigenti europee la combattevano a modo loro: con massicce dosi di austerity, e tutte le diseguaglianze che ne sono seguite. Mentre l’Europa del Sud pagava debiti come si espiano colpe, la mia generazione nata precaria diventava sempre più precaria. Poi è arrivata l’altra guerra, quella al terrorismo. Qui ci sono stati armi e feriti, ma soprattutto c’è stato il terrore che ha consentito anche alle democrazie più illuminate di piegarsi a dosi massicce di «stati d’urgenza». Nel 2015 la Parigi che accoglie la Conferenza sul clima COP21 è la stessa che in nome dell’état d’urgence perquisisce gli attivisti e impedisce agli ambientalisti per la giustizia climatica di manifestare. Quello che Hollande aveva definito come un attacco alla libertà – cioè gli attacchi terroristici – si traduce per paradosso in una compressione delle libertà civili. È l’era del controllo sociale, sono gli anni della sorveglianza di massa e del DataGate. E ci catapultano fino a oggi, nel pieno dei dibattiti sul green pass, a ormai più di un anno dalla pandemia. 

Contro isolamento e frammentazione

Il 2020 è l’anno del coronavirus, Macron è tra i primi a dichiarare la «guerra». Anche stavolta ci è stato chiesto di stringerci attorno alle bandiere e di dimenticare le responsabilità politiche, le fabbriche chiuse troppo tardi, i sistemi sanitari infragiliti… Da precari, ci siamo ritrovati pure casalinghi, divisi, isolati ognuno nella sua bolla. Se prima a dividerci era una infinita galassia contrattuale, ora siamo stati separati anche nei luoghi: i luoghi di lavoro intesi come terreni del confronto e dello scambio di saperi, di esperienze, di ribellioni. Sempre più conterà la prestazione, verremo freelancizzati, e la libertà di quel “free” sarà solo un’illusione: spazio privato e di lavoro si confondono, e le donne come abbiamo già visto sono quelle che più ne pagano il conto. È qui che ci viene in soccorso Genova. 

Unire le lotte che il neoliberismo ha diviso

Oggi per tenerci tutti assieme dobbiamo praticare la «intersezionalità». Cosa significa? Che siamo stati divisi sul lavoro come precari, ma anche nel nostro immaginario: a essere colpita è stata la capacità di lottare per una visione alternativa. Ne “Il nuovo spirito del capitalismo”, Boltanski e Chiapello hanno mostrato la capacità del capitalismo di fagocitare i movimenti, come quello del Sessantotto e l’ambientalismo. Nancy Fraser ha dimostrato poi come il neoliberismo abbia trasformato il femminismo, esautorandone la spinta di giustizia sociale e trasformandolo in una retorica del “tetto di cristallo”: l’1 per cento compete per arrivare ai vertici, il 99 per cento delle donne rimane subordinato. Oggi per unire tutte quante le lotte che sono state parcellizzate pratichiamo la «intersezionalità»; se dobbiamo farlo è anche perché siamo finiti nella trappola di un neoliberismo che targetizza tutto. Anche la lotta diventa lotte, divise per target, black, white, lgbt, women, green… Tutto questo è possibile perché abitiamo l’internet delle nicchie, perché ci aggreghiamo per temi, per hashtag, ci ritroviamo insieme grazie ad algoritmi che ci differenziano. E invece noi dobbiamo unire. Ecco il tesoro che ci ha lasciato Genova: in quel 2001 erano in piazza agricoltori, precari della conoscenza, sindacalisti, disoccupati, migranti, donne uomini lesbiche gay di quale parte del globo non importa. E ambivano a una cosa insieme: un altro mondo possibile. Una visione collettiva.

© Riproduzione riservata