Prepariamoci. Il prossimo anno sarà segnato da un acceso confronto politico sul premierato elettivo proposto dal governo. In questa prospettiva vale allora la pena di porsi una domanda finora trascurata: quali conseguenze possono discenderne sulle grandi emergenze del paese, cioè sulla capacità di contrastare le disuguaglianze e di perseguire uno sviluppo inclusivo?

Dai tempi del famoso rapporto della Trilaterale (1975), esponenti autorevoli della cultura liberale sostengono che il sovraccarico di domande che investe le democrazie deve essere affrontato con una maggiore verticalizzazione del potere che rafforzi la governabilità. Vanno insomma liberati i leader politici da vincoli e poteri di veto.

Uno strumento di particolare rilievo è l’elezione diretta dei leader con un sistema elettorale maggioritario (anche se quella del capo del governo sarebbe un’assoluta peculiarità italiana). A questa impostazione si avvicina anche quella di Giorgia Meloni, che muove da un retroterra di cultura politica antiparlamentarista, certo diverso da quello liberale.

Ma che significa governabilità? Chi usa questo concetto si riferisce in genere al “come si decide” – alla rapidità della decisione favorita dalla concentrazione del potere – più che al “che cosa si può decidere” con un certo modello istituzionale. In realtà il confronto tra le democrazie avanzate suggerisce che quelle maggioritarie sono oggi meno adatte a mediare le conseguenze sociali e le disuguaglianze indotte dalla globalizzazione e dall’economia.

Infatti, esse comportano una crescita della personalizzazione politica che a sua volta indebolisce – invece di favorire – la capacità di prendere decisioni appropriate per contrastare le disuguaglianze con una redistribuzione efficace. Perché per vincere le elezioni si accompagna allo spostamento dell’asse della rappresentanza verso i ceti più abbienti e insieme schiaccia l’azione del leader verso obiettivi elettorali di corto raggio.

Il partito del carisma

La personalizzazione e i partiti personali sono in crescita nelle democrazie avanzate, specie dove operano sistemi elettorali maggioritari in cui la personalità dei candidati conta più dei partiti e dei loro programmi. Le qualità morali e le capacità comunicative, valutate attraverso il ruolo crescente dei media, pesano dunque di più.

Ma ciò vuol dire anche che ci si aspetta dai leader risposte più rapide, legate alle loro qualità personali, al loro carisma. Dopo un po’ di tempo, però, se le risposte non arrivano, gli elettori se ne vanno. Da qui lo schiacciamento della leadership sul breve periodo (la “veduta corta”) e su misure d’impatto immediato, specie a carattere distributivo (incentivi, bonus, ecc.), ma anche il più rapido consumo dei nuovi leader negli ultimi anni.

Essi cercano spesso di frenare questa deriva con risposte populiste di due tipi. Da un lato, tentano di aggregare elettori con interessi eterogenei, e in particolare i gruppi sociali più deboli sottratti ai partiti di sinistra, spostando la loro attenzione su temi trasversali come l’immigrazione e la sicurezza, i valori tradizionali.

Dall’altro praticano di frequente politiche contraddittorie e pericolose (specie per un paese con un alto debito) per tenere insieme interessi diversi, come richiesto di più dal sistema elettorale maggioritario per vincere le elezioni: ovvero meno tasse e più spese assistenziali.

Insomma, una più netta virata in direzione maggioritaria rischia di creare ancora più problemi. E dovrebbe pensarci bene la sinistra, e in particolare il Pd, che dalla sirena maggioritaria è stato attratto sin dalle sue origini.

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