La sindrome della minoranza è stata una risorsa decisiva nella costruzione del consenso per Giorgia Meloni e il suo partito.

Le varie e variamente ripulite reincarnazioni del Movimento sociale italiano sono cresciute, per ovvie ragioni storiche, in un generale clima di ostracismo culturale e delegittimazione politica. Essere esclusi e osteggiati da parte delle istituzioni polverose, degli accademici saccenti, dei giornali al servizio del potere, dei salotti chic, dei consessi con il grembiule, dei poteri forti e pure di quelli deboli è diventato un elemento centrale nell’identità della destra sociale.

Generazioni di post fascisti si sono definite in base al principio secondo cui l’onore è sempre proporzionale al numero dei nemici, come ha ricordato anche la stessa leader con una raffinatissima criptocitazione di Mussolini nella sua biografia di successo. Insomma, per la destra essere emarginati è un vanto, sentirsi minoritari un imperativo morale, abitare sulla sponda opposta del mainstream certifica che la strada è giusta, e tutto questo ha calcificato una psicologia da catacomba in cui la debolezza rispetto al mondo ostile è riletta come formidabile collante identitario.

Fratelli d’Italia ha costruito il suo successo politico su questi presupposti, non certo sull’allargamento verso il centro. Alla nascita del governo Draghi, Meloni ha ripetuto la solita solfa brechtiana – «ci sedemmo dalla parte del torto visto che tutti gli altri posti erano occupati» – e ha scelto di stare all’opposizione, che del resto è stata la condizione in cui si è trovata più spesso, ma, in modo più profondo, è lo stato necessario per un popolo politico cresciuto con il feticcio della minoranza come condizione esistenziale.

Il sovrappiù di consensi guadagnati è un dono dell’autolesionismo di Matteo Salvini.

Qui sta il paradosso della minoranza. Ciò che ha messo Fratelli d’Italia nella condizione di preparasi a diventare il primo partito e a guidare il governo è anche la più grande minaccia alla sua effettiva capacità di governare. La composizione delle liste elettorali è un primo indizio del cedimento: il proclamato progetto di trasformare la compagine della destra sociale in un partito conservatore maturo e “fusionista” ha partorito liste zeppe di colonnelli e tedofori della fiamma tricolore, con qualche sparuta concessione di bandiera ad altre sensibilità.

Quando si è trattato di scegliere, il partito si è rinserrato, aggrappandosi a un’autocoscienza minoritaria che mal s’accorda con la gestione del potere, un fatto strutturalmente maggioritario. Nella cultura che ha reso grande un partito minoritario c’è anche il germe del suo fallimento alla prova della maggioranza.

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