Nel sistema politico italiano la presidenza della Repubblica è una istituzione importante, dotata di poteri significativi a lungo sottovalutati. Quei poteri hanno cominciato a manifestarsi con la presidenza di Oscar Luigi Scalfaro (1992-1999), contemporaneamente con la sfaldarsi del sistema di partiti.

Parlamentare di lunghissimo corso e sostenitore del ruolo centrale del parlamento, Scalfaro si trovò quasi costretto a esercitare appieno i poteri di nomina del presidente del Consiglio e di (non) scioglimento del Parlamento, dando alla presidenza un compito di stabilizzazione e di riequilibrio.

Sulla scia di Giuliano Amato, formulai allora e precisai in seguito la metafora della “fisarmonica dei poteri del presidente”. Quando i partiti sono deboli, i presidenti possono suonare la fisarmonica a loro piacimento avendo come limite soltanto la Costituzione.

Se i partiti sono forti, in grado di dare vita a solide coalizioni di governo e di convergere sulla scelta del capo di governo, allora il presidente terrà chiusa la fisarmonica. Scalfaro, Napolitano (2006-2013, 2013-2015), Mattarella (2015-2022) sono stati ripetutamente chiamati a suonare la fisarmonica, facendolo in maniera più che apprezzabile.

Il mandato di Ciampi (1999-2006) si è svolto in presenza di una coalizione guidata da Berlusconi e dotata di una ampia maggioranza parlamentare che non richiese nessun intervento. Complessivamente, è valutazione diffusa che sia opportuno che il presidente abbia la possibilità di esercitare pienamente i poteri attribuitigli dalla Costituzione.

La proposta Meloni

Dunque la proposta di Giorgia Meloni, suscita molte perplessità. Cito: «Siamo pronti a votare Draghi al Quirinale a patto che subito dopo si vada alle elezioni». Una proposta di stampo platealmente partitocratico: i partiti che riprendono il sopravvento sulle istituzioni, a cominciare dalla presidenza della Repubblica.

La condizione che viene posta a Enrico Letta, il quale, peraltro, ha già espresso la sua preferenza per la continuità dell’azione del governo guidato da Draghi fino alla conclusione naturale della legislatura (marzo 2023), mi pare irricevibile.

Anzitutto, implica il trattare Draghi come un burattino ambizioso che, pur di diventare presidente della Repubblica, è disposto a rinunciare non soltanto a portare a compimento la sua opera di ripresa e rilancio dell’Italia, ma addirittura alla sua autonomia decisionale.

In secondo luogo, appena eletto il presidente dovrebbe sentirsi obbligato, come primo atto della sua presidenza, a sciogliere il parlamento e a indire nuove anticipate elezioni.

Nessun presidente della Repubblica è “autorizzato” a sciogliere un Parlamento nel quale esista/e una maggioranza che sostiene un governo.

Il presidente può essere giustificato allo scioglimento se il governo appare fragile, ad esempio, venendo sconfitto in una o più votazioni su disegni di leggi significativi, e se la sua maggioranza risulta molto indisciplinata, non più operativa.

Tuttavia, la valutazione e la decisione spettano al presidente e lo scioglimento non gli può essere imposto meno che mai come adempimento di un accordo che menomi l’autonomia dell’istituzione presidenziale. Infine, quale credibilità, quale affidabilità, quale onorabilità avrebbe un presidente eletto sulla base di un patto scellerato fra i partiti?

La fuga in avanti di Meloni è segno di nervosismo politico. Godere della rendita di opposizione non le basta più. Rischia di risultare irrilevante nella imminente elezione presidenziale e ancor più in tutte le scelte di un governo che sta all’opposto del sovranismo di Fratelli d’Italia. Ma la sua proposta rivela grave disprezzo per l’autonomia della presidenza della Repubblica, e non solo.       

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