In questi giorni la povertà torna a fare notizia. Un rapporto della Caritas ha evidenziato l’ampiezza del dramma, amplificato dalla pandemia. L’Istat, a giugno scorso, aveva confermato che, se pur in lieve riduzione rispetto all’anno precedente, la situazione a fine 2019, cioè prima della pandemia, era già preoccupante: il numero di poveri assoluti era più che doppio rispetto al 2007, prima della «grande recessione» del 2008-13.

La povertà assoluta non riguarda tutte le fasce sociali e di età allo stesso modo: è altissima tra gli stranieri (24.4 per cento), tra chi ha tre o più figli minori (20.2 per cento) o nelle famiglie numerose (19.6 per cento), tra chi è in cerca di occupazione (19.7 per cento), operaio o assimilato (10.2 per cento), tra i giovani (8.9 per cento), tra chi ha appena la licenza elementare (10.5 per cento) o la licenza media (8.6 per cento). Nel Mezzogiorno, il tasso di povertà assoluta è dell’8.6 per cento. Questo era dunque il quadro all’inizio della pandemia, la quale non ha fatto che complicare la situazione proprio per quelli che erano già più vulnerabili.

Effetto virus

Come poi ci ha informato la Banca d’Italia, le cose si sono messe male per più della metà degli italiani, che hanno visto calare il proprio reddito: il 14.9 per cento di più della metà, il 17.9 per cento tra un quarto e la metà e il 18 per cento di meno di un quarto. Ma ad essere più colpiti sono stati i disoccupati, quelli in cerca di occupazione (più della metà ha visto ridursi il proprio reddito), i lavoratori autonomi e indipendenti (l’80 per cento ha subito un calo e il 36 per cento ha subito una riduzione di più della metà), i lavoratori a contratto a termine.

Se consideriamo che nel nostro paese i lavoratori dipendenti con contratto a tempo indeterminato sono appena un terzo del totale, capiamo dove stiamo andando. Anche il calo di natalità è un segno del peggioramento delle condizioni di vita generali.

Quando finalmente, tra sette mesi, l’Istat ci presenterà il quadro di questo 2020 emergerà allora come nell’indistinto magma dei ceti a basso reddito, dei «poveri», ci saranno finiti anche quei tanti che fino al gennaio scorso riuscivano a «galleggiare», sopravvivendo in un modo o nell’altro, contando su un bonus qua e un reddito di cittadinanza là, sperando nel buon cuore dei governi in carica. A cominciare da quelli che dicevano di avere «eliminato la povertà».

Questo storytelling sulla povertà può anche andare bene se si vuole segnalare un problema ma non funziona più se lo scopo è solo quello di dire che la pandemia è stata una catastrofe che ha colpito indistintamente. Perché così non è. Il Covid-19 colpisce tutti allo stesso modo. Non solo perché aggredisce in modo letale prevalentemente anziani e persone con altre patologie, ma perché i suoi effetti sono più acuti a seconda delle fasce sociali e delle condizioni di vita: chi vive in ambienti ristretti o malsani o affollati; chi ha stili di vita e occupazioni che affaticano e logorano; chi risparmia sui cibi sani e sui farmaci perché non se lo può permettere.

Gli effetti non sono solo sanitari, ma anche economici e sociali. Anche al netto del lockdown, la pandemia ha cambiato molte abitudini, stili di vita e tipologie di consumi. Ad esserne colpiti, lo sappiamo, sono stati i settori che più vivono della convivialità ma anche della presenza fisica delle persone – dal turismo ai trasporti a teatri, cinema e spettacoli, oltre naturalmente a ristoranti e bar – e sono i lavoratori di questi settori, nella grande maggioranza con livelli di reddito già bassi, a patirne le conseguenze.

Lo storytelling dominante, però, non racconta dell’altra faccia della medaglia e del perché tutto questo sta accadendo. Perché c’è un’Italia delle disparità dietro alla povertà: c’è la disuguaglianza, di opportunità e di condizione, esacerbata dalla mancanza di mobilità sociale.

Il paese immobile

L’Italia è tra i paesi a economia avanzata tra i più disuguali e immobili. Se nasci figlio di operaio, in Italia, o figlia di genitori senza titoli di studio, la tua vita è segnata. Se poi nasci in famiglia numerosa, al Sud, tanto più. Durante la pandemia sono aumentati i risparmi (di chi se non di coloro he hanno continuato a ricevere un reddito? Di chi se non di chi ha possiede capitali e beni immobiliari?).

Le opportunità, per questo Paese che non è per giovani, sono limitate. Tutto questo con lo sciagurato destino non ha niente a che fare: sono decenni che il paese è fermo, che i redditi da lavoro de-qualificato non crescono mentre aumentano quelli degli iperqualificati, che chi non ha «legami familiari», entourage e ricchezza alle spalle non ha un futuro certo davanti.

La pandemia, con i suoi effetti deflagranti, ha esposto molti più di altri. E se il governo attuale ha fatto quello che poteva per limitare i danni (ma chiusure di scuole ed esercizi hanno colpito in modo disuguale, e anche questo è colpevole), viceversa – come i suoi predecessori – poteva fare di più per curarsi del male di fondo. Ma, certo, quando si va a toccare rendite e privilegi, allora si levano le voci di chi conta, per lasciare che dei poveri continui ad occuparsi la Caritas, i volontari delle Cucine popolari o… papa Francesco.

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