Sembra già lontana la grande manifestazione per la pace, quella del 5 novembre a Roma, intendo, quella che per un giorno almeno ci ha allargato il respiro all’orizzonte del mondo. Roma piena di vento e bandiere, ignara per un giorno almeno dei leader politici nazionali, ancora tutti rattrappiti dentro la corta spanna delle loro tattiche.

E’ possibile che la violenza dei tempi abbia avvelenato anche le intelligenze migliori, inducendole a confondere l’idealità con l’ideologia? Questa confusione si chiama cinismo.

Ecco: quel giorno a Roma – e fosse pure solo quel giorno – ha bucato questa angustia con una fame di idee più nobili di cosa sia l’umano, uno sgomento plenario di fronte all’orrore del presente, uno sguardo che riusciva ad abbracciare le vittime della violenza e dell’ingiustizia ben oltre confini europei, dalle donne iraniane alle prigioni a cielo aperto in Palestina, dalla Siria alla Libia, dai curdi agli afgani ai deserti africani alle vittime di tutte le guerre che stanno infuriando sotto lo sguardo impotente delle Nazioni Unite.

Le parole stesse parevano nuove. Le più belle, forse, rubate ai poeti, come quelle scritte sui brevi striscioni di Assopace Palestina, le parole che Christa Wolf mette in bocca a Cilla, contro la scelta tragica delle amazzoni e di Pentesilea: «Fra uccidere e morire c’è una terza via: vivere».

Che non vuol dire affatto “sopravvivere”: è proprio un bisogno di rinascere al mondo vero benché sconvolto, di vivere all’altezza del suo pianto e non nelle bassure dei decreti sui contanti e la libertà di mazzetta, o della proroga del superbonus fiscale sull’edilizia delle villette.

 A Roma è stata letta la lettera del cardinale Matteo Zuppi, presidente della Cei, che rivolgendosi non al popolo, ma a ciascun singolo manifestante, prima chiedeva rispettosamente il permesso di dargli del tu, e alla fine i concetti della “Fratelli tutti” li trasmetteva a ciascuno con le parole di Blowin’in the Wind (tanti di noi le ritrovano incise nei luoghi più remoti e proustiani della memoria: How many ears must one man have/ Before he can hear people cry?/Yes, and how many deaths will it take 'til he knows/ That too many people have died?).

In italiano avevano un suono strano, nuovissimo. Come se questa lingua avesse dimenticato fin l’abc dell’umano, i suoi primi perché.

Le radici del nostro cinismo

Già: questa lingua “di poeti di artisti di eroi/di santi di pensatori di scienziati/di navigatori…” –come recita – restiamo a Roma - l’iscrizione scolpita sulle quattro facciate del Palazzo della Civiltà Italiana all’Eur, sopra le sei file di nove archi romani che danno al bianco parallelepipedo la sua levità sognante o spettrale, secondo il cielo e il vento.

Avrebbe dovuto raccogliere i prodotti delle diverse attività del genio italico, simboleggiate dalle ventotto statue che popolano il pianterreno, in occasione dell’Esposizione Universale di Roma, assegnata per il 1942 all’Italia – che era da poco diventata impero coloniale.

L’Esposizione naturalmente non ebbe luogo a causa della guerra: del resto nel 1935 l’Italia aveva subito le sanzioni della Società delle Nazioni – a proposito di umanità e talenti – per i metodi inumani usati nella guerra d’Etiopia.

Benito Mussolini fece fatica a trovare l’acciaio necessario per armare l’anima di cemento di questo sogno ricoperto di bianco travertino.

Ma l’idea di civiltà è una cosa seria, e forse la luce che ne emana ispirò i suoi ideatori, scelti fra molti candidati da Marcello Piacentini: perché questo palazzo, che sorge su un cumulo di sanguinose menzogne, al centro di un’area che con sprezzo del ridicolo fu chiamata Quadrato della Concordia, resta pur sempre un monumento al sogno della ragione, di goyana memoria.

Un sogno più che un sonno, un sogno di ordinato e insieme poetico splendore, privo di ogni protervia, scandito dolcemente dal ritmo di queste arcate la cui levità contrasta con gli intenti apologetici, come una sorridente reminiscenza di quattrocentesche Città Ideali.

Ma sempre un sogno, destinato a morire nelle tristi geometrie degli anni Trenta che lo circondano, coi loro colonnati di portici quadri e la burbanza dei marmi bianchi che albergano la sostanza finanziaria e burocratica dello stato, Ina, Inps, coi nomi scolpiti per esteso nei frontoni.

E’ questo misto di freddezza e desolazione, sublimità e vuotezza – ma anche, appunto, spettrale levità – che la mente italiana intende, probabilmente, per “metafisica”, e De Chirico aiuta.

Fedrico Fellini stesso parlava dell’Eur come uno dei suoi quartieri preferiti: una scenografia raggelata e astratta, la cosa più simile a Cinecittà quando le produzioni sono dismesse. Ha radici profonde, lo scetticismo che circola come le correnti d’aria fra le quinte della nostra teatralità.

Non è per mescolare il taccuino del turista alla perorazione sulla pace che evoco tutto questo, ma perché dobbiamo indagarle, queste radici profonde, capire quale maledizione da sempre toglie ogni serietà, in Italia, alla vita civile, e riduce l’idea di civiltà in burletta.

I palazzi della civiltà

A soccer ball adorned with the picture of soccer legend Diego Armando Maradona sits on the pitch prior to the start of the third edition of the 'Match of Peace', an all-star soccer match sponsored by Pope Francis and this year played to tribute Maradona, at Rome's Olympic Stadium, Monday, Nov. 14, 2022. (AP Photo/Gregorio Borgia)

La civiltà può pensarsi come una Città i cui palazzi bianchi non sono retti da anime di cemento armato, ma da figure dell’idealità: valori, possibilmente universali. Roma – la Roma di tutti i giorni – all’idealità ha rinunciato, e affoga nello sterco dei maiali, nel pattume dei ratti.

Si inaugurava in questi mesi appunto all’Eur,  che un pietoso oblio ha reso abbreviazione di Europa  e non acronimo di Esposizione Universale di Roma, il Muciv, ossia il Museo delle Civiltà – al plurale - che ristruttura il patrimonio della memoria antropologica ed etnica secondo le perplesse domande del pensiero post-coloniale.

A proposito di violenza e sogni imperiali. E ben venga: ciò non impedisce al Palazzo della Civiltà Italiana, che di questo museo dovrebbe essere il centro, di restare inaccessibile, circondato da un recinto più squallido di quello di una discarica.

Per forza: ne dispone la Maison Fendi, e lo apre solo in occasione dei suoi show d’arte e moda, senza sognarsi di mantenere il patto “culturale” col governo italiano: e nella più generale indifferenza.

Lì di fianco c’è un palazzetto scalcinato che si chiama ancora, in lettere latine, “Ente Autonomo Esposizione Universale di Roma”, e di fronte un mercatino rionale dell’usato.

Un popolo di trasmigratori

Pochi giorni sono passati da quella straordinaria giornata di Roma, per un attimo all’avanguardia della cognizione del dolore del mondo, e del rifiuto di quella “parata delle sovranità” (copyright Gorbacëv) che sta forse finendo di affossare l’Unione europea e le Nazioni Unite.

E l’attuale sovranismo italiano, alle prese con la questione dei migranti, nel suo impari duello con quelli tedesco e francese.

La memoria corre a quella scritta sopra le arcate del sogno, che rovescia, più trombona e dannunziana che fascista, la gerarchia platonica delle vite: prima i poeti e i guerrieri, e poi tutti gli altri.

Beffardo, un guizzo da maschera dell’arte colpisce la mente: quell’ultima parola funambolica che riesce ad esprimere una verità in vesti di menzogna.

Un popolo di Poeti e di Eroi, eccetera eccetera…. e di Trasmigratori. Vulgo, migranti. Come eravamo. Come forse siamo rimasti: migranti disperati, in cerca di un’idea di paese civile.  

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