Dopo la pandemia, la guerra, la crisi energetica, e il ritorno dell’inflazione è legittimo chiedersi se l’Eurozona tornerà a essere un’area economica aperta al commercio internazionale e integrata col resto del mondo, con una crescita stabile, non inflazionistica e priva di conflitti sociali.

Un primo cambiamento strutturale è la crisi, probabilmente irreversibile, del “mercantilismo” tedesco, alla base del successo della prima economia europea, iniziato con la riunificazione: la sua bilancia commerciale in rapporto al Pil è salita infatti dallo 0,8 per cento del 1991 a un picco dell’otto per cento nel 2015, per stabilizzarsi al 6,5 nel 2019, alla vigilia della pandemia; avanzi persistenti e superiori anche a quelli della Cina.

Questo ha significato privilegiare un sistema industriale votato alle esportazioni, anche a costo di comprimere i consumi interni per finanziare l’espansione nei mercati esteri. La competitività dell’industria è stata garantita da un accordo coi sindacati che hanno concesso moderazione salariale in cambio di stabilità dell’occupazione, e dalla moneta unica che l’ha messa al riparo dal rischio di svalutazioni da parte dei paesi concorrenti dell’area (non è una critica all’euro, ma a chi, come l’Italia, ha aderito per avere i vantaggi della stabilità monetaria, ma è stato incapace di riformare la propria economia).
L’industria ha poi beneficiato del basso costo dell’energia, diventando però dipendente dalle forniture dalla Russia, con le conseguenze che oggi conosciamo. E più di altri paesi, la Germania ha cavalcato la globalizzazione, avvantaggiandosi della crescita dell’economia cinese sia per delocalizzare le filiere produttive, sia per dare un nuovo sbocco ai propri prodotti.

La rottura

Il meccanismo si è rotto. La Cina sta diventando un pericoloso concorrente e il rallentamento strutturale della sua crescita economica frena la domanda di importazioni, mentre le disfunzioni nelle catene di produzione e nella logistica aumentano i costi di produzione.

Più in generale, il trend verso una minor integrazione tra le economie del mondo indotta dai rischi geopolitici e dalla pandemia ha messo in crisi il modello mercantilista.

Il caro energia, che non finirà domani, ha messo particolarmente in crisi l’economia tedesca, basata sull’industria, e non su tecnologia e servizi, come Stati Uniti e, sempre più, Cina. Ma anche escludendo il costo dell’energia, i prezzi alla produzione tedeschi stanno crescendo di oltre il 15 per cento, principalmente per gli aumenti di semilavorati e materiali importati.

Il rallentamento dell’export, motore della crescita, e i salari che non tengono il passo dell’inflazione, minano il contratto sociale alla base della competitività della locomotiva tedesca: il governo ha già promesso un aumento del venti per cento del salario minimo, e uno dei principali sindacati (IG Metall) rivendica aumenti dell’otto per cento.

La Germania monolite

Mercantilismo, austerità e cambi fissi hanno però esportato deflazione all’interno dell’eurozona. Sarebbe dunque nell’interesse dell’Italia, che ha cercato malamente di perseguire un proprio “mini” mercantilismo (basato su industria, export, bassi salari – ma senza stabilità dell’occupazione – ed energia russa a buon mercato), che la Germania passasse da una crescita trainata dalla domanda esterna a una basata su consumi interni, dall’industria ai servizi, e da una politica fiscale prettamente nazionale che privilegia il pareggio di bilancio, a un coordinamento a livello comunitario per attenuare meglio shock reali come la pandemia, la crisi energetica, i rischi geopolitici e la minor integrazione economica del mondo.

Ma è difficile immaginare oggi un tale cambiamento per la Germania ancorata come è al successo passato; e comunque una transizione molto difficile da realizzare come dimostrano le tante difficoltà della Cina che ha posto questa transizione come obiettivo strategico del prossimo decennio, e che, a differenza della Germania, ha già acquisito un’elevata competitività a livello internazionale nei settori tecnologici e nei servizi. Questo vale ancor di più per l’Italia. Un primo interrogativo sul futuro dell’Europa.

L’inflazione tra Usa e Ue

Il secondo è l’inflazione e le conseguenze di affrontarla. Negli Stati Uniti l’inflazione è chiaramente demand pull ovvero un eccesso di domanda creata da una espansione fiscale e monetaria di proporzioni mai viste per contrastare il Covid, e che, oltre a spingere al rialzo i prezzi dei beni e servizi, ha anche creato piena occupazione, con conseguenti forti aumenti salariali.

In queste condizioni, la politica monetaria (unitamente alla fine dello stimolo fiscale) è la modalità giusta per contenere domanda e riportare sotto controllo l’inflazione, senza causare necessariamente una recessione.

In Europa l’inflazione è invece cost push, in una situazione in molti casi di sotto occupazione. Gran parte della crescita dei prezzi è dovuta al caro energia e dei prodotti alimentari, a causa della guerra in Ucraina e delle sue conseguenze geopolitiche, nonché della stima troppo ottimista dei costi della transizione energetica.

La sostituzione delle forniture dalla Russia con altri fonti energetiche comporterà un elevato costo per la necessaria conversione delle infrastrutture esistenti e nella costruzione di nuove. Gli obiettivi del green deal hanno causato un massiccio taglio degli investimenti nella ricerca e sviluppo di energia fossile che così ne manterrà elevato il prezzo durante tutta la lunga transizione alle rinnovabili: chi investe infatti in progetti con una vita utile di 20 o 30 anni per produrre e vendere energia fossile che nessuno vorrà più?

E la transizione verde ha fatto esplodere la domanda e i prezzi dei tanti input, per esempio minerali come litio, nickel, rame, cobalto, terre rare e rame, di cui l’Europa è priva e deve necessariamente importare; rischiando di passare dalla dipendenza dalla Russia a quella della Cina che già domina la produzione di litio (input cruciale chiave per le batterie) e dei pannelli solari, e vuole sfruttare la minore competitività dell’industria europea per dominare anche l’eolico.

Condizioni che alimentano le spinte salariali, vista la perdita di potere d’acquisto. Un quadro poi che spinge al deprezzamento dell’euro, a sua volta fonte di inflazione essendo questa prevalentemente importata.

Il dilemma monetario

In assenza di una politica fiscale comune, in grado di attenuare i costi degli shock reali e dei cambiamenti che questi impongono alla struttura economica europea, il compito di riportare l’inflazione sotto controllo resta interamente sulle spalle della politica monetaria, che presto si troverà davanti a un dilemma.

Potrà aumentare i tassi e ridurre la liquidità per ridurre la domanda aggregata e rafforzare il tasso di cambio per frenare l’inflazione, col forte rischio di una recessione visto la natura cost push dell’inflazione (ci vuole una contrazione della domanda molto forte per ridurre i prezzi se questi dipendono dai costi degli input importati), un mercato del lavoro ben lungi dalla piena occupazione e un alto costo energetico esogeno alla domanda di beni e servizi in Europa.

Oppure dovrà accettare un livello di inflazione stabilmente più elevato, innescando una spirale prezzi/salari, con le implicite tensioni sociali, e causando un’iniqua redistribuzione dei redditi, come sempre accade con l’inflazione. Molte incognite pesano sul futuro dell’Europa. E non si vede chi abbia la lucidità e lungimiranza per risolverle.

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