Dopo otto mesi di Coronavirus abbiamo capito che la sfida non è soltanto sanitaria, ma soprattutto psicologica. Per battere il virus serve il vaccino, ma per evitare che faccia una strage bisogna prendere le decisioni giuste al momento giusto.

A livello individuale abbiamo fatto progressi: mettiamo la mascherina anche se sappiamo che non protegge noi, ma gli altri; evitiamo strette di mano e luoghi affollati ma conserviamo contatti sociali importanti, perché abbiamo introiettato il concetto di mitigazione del rischio (lo stesso approccio che ci spinge a salire in auto pur sapendo che potremmo fare un incidente, dunque allacciamo le cinture). A livello collettivo, invece, continua a prevalere una forma di irrazionalità pericolosa.

Abbiamo lentamente abbandonato l’argomento “chi l’avrebbe mai detto che arrivava una seconda ondata di contagi, era imprevedibile” (sbagliato: era prevedibile e previsto) e ora il governo Conte e vari livelli istituzionali si trincerano dietro l’ultima barriera che li separa dall’assumersi le proprie responsabilità: “All’estero stanno messi peggio di noi”.

A parte che non è così ovvio e potremmo essere soltanto in ritardo - in Francia e Germania, per esempio, hanno riaperto le scuole prima - ma in ogni caso il mal comune non è certo mezzo gaudio, in questo frangente.

Stiamo quindi alle cose di casa nostra: 297 morti in un giorno dovrebbero reclamare tutta la nostra attenzione. Ora che finalmente, con un mese di ritardo, il governo si prepara ad adottare misure drastiche, rimane da fare ancora un salto di mentalità.

Il presidente del Consiglio Conte continua a vantare i benefici di un approccio incrementale: riceve i dati, li osserva, li valuta e poi decide se adottare nuove restrizioni. Sembra sensato, ma è il modo peggiore di affrontare la pandemia, come dovremmo aver ormai capito. Perché la premessa su cui si basa è sbagliata: i dati che Conte riceve vanno interpretati, non possono essere presi per buoni così come sono.

Un esempio: in questi giorni sembra che i ricoveri in terapia intensiva aumentino gradualmente, ma una delle spiegazioni è che stanno salendo i morti, che lasciano libero il posto a nuovi malati gravi. L’indice di diffusione del contagio Rt considera soltanto i sintomatici, che sono circa un terzo del totale dei contagiati, si basa su dati che risalgono alle due settimane precedenti e viene pubblicato dopo una settimana di elaborazioni, come ricorda la fondazione Gimbe. Quando Conte assicura che sta studiando i dati dell’ultimo report dell’Istituto superiore di sanità, sta guardando un ritratto parziale della pandemia in Italia a inizio ottobre.

Per prendere le decisioni giuste, quindi, bisogna usare il telescopio e non lo specchietto retrovisore. Anche adesso che si va verso forme di lockdown settoriali e locali. I provvedimenti sono inevitabili, ma per gestirli bisogna ragionare su quale scenario vogliamo avere al termine del blocco, invece che monitorare le variazioni giornaliere. In attesa del vaccino, l’obiettivo deve essere uno solo: riuscire a convivere con il virus con sistemi di tracciamento dei contagi funzionanti e interazioni sociali ridotte (ha senso prendersi il rischio di tenere aperta la scuola, ma non quello di mandare in ufficio chi può stare in smart working), con controlli efficaci sul rispetto di norme necessarie per diversi mesi. Presentare il lockdown come una parentesi fastidiosa in attesa dello shopping natalizio e dei cenoni, come ha fatto il premier Conte, è il modo migliore per cominciare il 2021 con ancora più morti.

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