Niente, il governo proprio non ce la fa a rispettare il parlamento, i suoi tempi, le sue regole, la sua funzione – che è quella di “parlamentare”, da “parlare”: il luogo in cui ci si parla; non quello dove si vota e basta. In parlamento, il momento più importante non è il voto, ma quello del dibattito: è lì che opinioni, interessi, esigenze si incontrano e si scontrano, e più si scontrano meglio è, perché è scontrandosi che si smussano le asperità e si arriva al compromesso, unico frutto maturo di una democrazia.

Da ultimo, è dovuto intervenire anche il presidente della Repubblica, che ha scelto sì di promulgare la legge con cui si converte il decreto legge «Milleproroghe» – per salvarlo dalla decadenza automatica –, ma non ha potuto fare a meno di dare una piccola lezione di diritto costituzionale alla maggioranza, ricordando che quando si converte un decreto legge non lo si può farcire di cose che con l’oggetto di quel decreto non hanno niente a che fare.

La tentazione, per carità, è ghiotta. Un decreto legge del governo va convertito in legge dal parlamento entro 60 giorni, altrimenti è come se non fosse mai esistito. Ne deriva che il procedimento di conversione è particolarmente spedito, con tempi contratti, e in fondo è un procedimento di certa approvazione. Vuoi che, nella concitazione, a qualcuno non venga in mente di infilarci dentro qualche altra normicina, che non c’entra niente con il decreto legge originario, ma almeno così la portiamo a casa senza troppa fatica?

Le parole di Mattarella

«Il testo del decreto-legge contiene, in seguito all’esame parlamentare, 205 commi aggiuntivi rispetto ai 149 originari», nota sconsolato Mattarella nella sua lettera, e questo non va bene, perché il procedimento accelerato e motorizzato della conversione di un decreto legge è un’eccezione alle regole del gioco parlamentare, che si pone in ragione di quella scadenza di 60 giorni che incombe. E, trattandosi di un’eccezione, essa è destinata solo a quelle specifiche norme, non ad altre: infilarcene altre per strada significa sottrarle all’ordinario dibattito parlamentare, a detrimento della rappresentanza politica.

Ma non è comunque la prima volta che il governo spinge sull’acceleratore per interessi di parte. Lo aveva fatto anche per la legge di bilancio, approvata a fine dicembre. Che una legge di bilancio richieda tempo per essere preparata per bene, soprattutto da un governo che si insedia a fine ottobre – quando cioè il parlamento avrebbe dovuto già cominciare a discuterla, quella legge – ci sta, figuriamoci.

Certo è che, a questo giro, il governo forse c’ha messo un po’ troppo, e tra ripensamenti, passi indietro e cambiamenti di programma, si è arrivati troppo pericolosamente prossimi alla scadenza del 31 dicembre. E un governo che non riesce a far approvare il bilancio entro il 31 dicembre non ci fa proprio una bella figura.

Per portare a casa il risultato in tempo, dunque, l’esecutivo ha posto sul provvedimento una questione di fiducia, che è uno strumento che suona così: «O mi approvi la mia proposta così com’è e subito, senza discutere e modificare ancora, o io mi dimetto». Un efficace mezzo di persuasione, non c’è che dire, e infatti Camera e Senato hanno approvato subito, e poi via tutti a stappare le bottiglie.

La fiducia

D’altra parte, al governo questa cosa della questione di fiducia piace assai. La pistola approva-così- e-subito-o-mi-dimetto» finora l’hanno usata sei volte alla Camera dei Deputati e due al Senato. E peraltro, con la maggioranza schiacciante che il governo ha in entrambe le Camere, non c’è stata altra ragione di ricorrere allo strumento in questione se non quella di chiudere in fretta e senza troppe storie la partita.

E in questa smania di accelerare naturalmente c’è finito anche il famigerato reato di rave party. Ve lo ricordate? Era stato introdotto con un decreto legge, per mai chiarite ragioni di straordinaria necessità ed urgenza, ma poi era stato, per fortuna, sostanzialmente ridimensionato nella fase di conversione in legge da parte del parlamento. Solo che anche lì, per rispettare la famosa scadenza di 60 giorni di cui sopra, hanno pensato bene di accelerare bruscamente, e questa volta lo hanno fatto con il ricorso alla cosiddetta ghigliottina – solo il nome già fa paura. Si tratta, in sostanza, della autoritativa interruzione del dibattito con immediata messa ai voti: la testa che salta, qui, è quella della libertà del parlamento. 

Insomma, il parlamento piace solo quando vota – e quando vota «sì» alle proposte del governo, naturalmente. Quando parla, discute, dibatte – quando fa il suo mestiere – un po’ meno. In fondo è tempo perso: bisogna che i treni arrivino in orario.

© Riproduzione riservata