Mentre si attende un decreto legge per la (ennesima) semplificazione della disciplina dei contratti pubblici, parliamo delle difficoltà intorno alla progettazione tecnica, soprattutto per le opere pubbliche. Occorre saper progettare bene sia l’idea iniziale (il progetto di fattibilità), sia il progetto definitivo, sia il progetto esecutivo: a un progetto carente o mal fatto conseguono quasi sempre controversie in fase di esecuzione e comunque un’opera di bassa qualità. Si pensi alla prassi perniciosa delle varianti con le conseguenti ricadute negative su tempi e costi.

Chi deve curare le diverse fasi della progettazione? Direttamente l’amministrazione interessata, o, anche solo in parte, soggetti privati, professionisti, società di progettazione o addirittura, con l’appalto “integrato”, la stessa impresa che, con il contratto, si aggiudica la progettazione esecutiva e la realizzazione dei lavori? Il diritto Ue non prescrive una aggiudicazione separata o congiunta; il codice del 2016 aveva espressamente vietato l’appalto integrato, ma sul punto è stato più volte modificato e sono fortissime le pressioni per un suo pieno ripristino, tra le quali forte è quella che viene dall’ANCI, che rappresenta anche le stazioni appaltanti meno attrezzate. Ma proprio questo è il punto: la pre-condizione è che l’amministrazione aggiudicatrice sia in grado di interloquire autorevolmente, sul piano tecnico, con l’impresa che redige il progetto esecutivo, fino al potere di respingerlo se fatto male; e dunque, per evitare pericolose asimmetrie informative, l’organizzazione nell’amministrazione di una adeguata capacità tecnica è sempre necessaria per consentirle idonea elaborazione e controllo sulla completezza e qualità dei progetti.

Non tutte le opere pubbliche richiedono la stessa soluzione organizzativa. Per le “grandi opere”, quelle di maggiore complessità tecnica (un nuovo ospedale, una linea ferroviaria o metropolitana), si può fare ricorso a professionisti esterni, debitamente scelti attraverso procedure di evidenza pubblica o addirittura, in caso di bisogno di progetti innovativi, a procedure più sofisticate come quella del dialogo competitivo (“sponsorizzata” dal diritto UE), purché vi sia un’amministrazione in grado di esercitare un’influenza determinante sul progetto. Fermo restando che una progettazione “pubblica” è sempre possibile (con l’ausilio di centrali di committenza e unità di missione specializzate), ma ha comunque un costo.

Per la gran parte delle opere pubbliche, quelle medio piccole, di “manutenzione del territorio” (la manutenzione e il miglioramento sismico di edifici esistenti, la manutenzione della viabilità, le opere idrauliche semplici), la progettazione “fatta in casa”, con personale tecnico pubblico e con l’utilizzo di tecnologie specifiche, si rivela non solo fattibile, ma largamente preferibile, magari previa revisione dell’attuale disciplina degli incentivi da corrispondere ai tecnici progettisti.

La disputa sulla progettazione finisce dunque anche per riflettere un sottostante conflitto tra politiche infrastrutturali centrate su poche grandi opere (“strategiche”), costose e di lunga realizzazione, e politiche di interventi distribuiti sull’intero territorio nazionale, che riceverebbero una sicura spinta dalla creazione di una rete di stazioni appaltanti qualificate, al servizio dell’intero sistema amministrativo.

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