Le innumerevoli polemiche attorno alla gestione del Covid nascondono qualcosa di serio: la società occidentale contemporanea è completamente disabituata all’incertezza, all’imprevisto, al non programmato. Una vita che non sia sotto il proprio egocentrico controllo fa impazzire; situazioni che non si possono dominare appaiono inaccettabili.

Alcuni reagiscono a tale situazione sospesa con depressione, stanchezza o chiusura. Altri con rabbia, collera o sfida. C’è chi sceglie l’autoreferenzialità e cerca una fuga solitaria, un si salvi chi può individuale. C’è invece chi risponde con cieco vitalismo, negando la realtà, trasformandosi in folla arrabbiata.

Non c’è tanta differenza tra chi protesta e chi si separa dagli altri: entrambi sono modi per non acconsentire all’incertezza dell’indefinito, dell’inconsueto, dell’inatteso.

La paura del contagio o della sofferenza è logica e condivisibile. Ma la pandemia ha fatto emergere il terrore per ogni tipo di disagio e un forte fastidio per le domande ultime che essa reca con sé.

La rabbia contro virologi o medici che si contraddicono in Tv è frutto di tale atteggiamento: dalla scienza si vorrebbe una risposta ultimativa. Al netto della vanità di chi interviene peraltro troppo spesso, si dimentica che la scienza non è certezza assoluta ma ricerca, sperimentazione, progressi e fallimenti.

Ciò che è diventato insopportabile per l’uomo e la donna contemporanei d’Occidente è non sentirsi liberi di fare tutto ciò che pare loro.

Improvvisamente ogni tipo di restrizione diviene un dramma assoluto, tanto da provocare una continua ricerca dei colpevoli. Ma non se ne trovano di convincenti: è la vita ad essere così. Quella vera, non quella confortata del nostro orizzonte impigrito.

La vita è lotta, incertezza, attesa. Può cambiare e cambiarti. Non è mai stato vero che la si possa controllare.

La maggioranza del mondo vive già così. I poveri vivono l’incertezza nel quotidiano. Ora il Covid lo rammenta a tutti: se ne esce solo insieme.

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