La guerra è entrata in Europa ben prima del 24 febbraio scorso. Per una strana rimozione collettiva in tantissimi hanno dimenticato quanto è avvenuto nello spazio della ex Jugoslavia dopo il 1991: quasi un decennio di conflitti inter-etnici e intra-statutali, o intra-regionali.

Tutte le unità che componevano la Federazione jugoslava, ad eccezione del Montenegro, sono entrate in guerra con il nucleo centrale di quello stato, la Serbia, depositaria finale, e alla fine irriconoscibile, della Federazione.

A causa di questa rimozione il conflitto russo-ucraino è apparso una novità, come se non fossero mai avventi sul continente europeo bombardamenti sui civili e, soprattutto, stragi di innocenti.

Per fortuna non si è (ancora) visto nulla di simile a quanto avvenuto in tanti luoghi della penisola balcanica, su tutti il massacro di Srebrenica dove, in due giorni, furono massacrate 8mila persone. Quella ferita ha smosso la coscienza civile europea e internazionale.

Proprio l’imminenza di una ulteriore aggressione delle milizie filoserbe, questa volte contro la popolazione kosovara, ha mosso la comunità internazionale a introdurre la nozione del diritto di intervento umanitario (Resposabiity to protect), poi unanimemente approvato dall’Onu nel 2005.

Ricorrere alle armi

Se la comunità internazionale avverte con maggior sensibilità le violenze che vengono inflitte alle popolazioni di un paese, non di meno continua ad essere limitata nei suoi interventi. L’unico attivato in questa ottica fu il bombardamento dell’aviazione britannica e francese sulle truppe corazzate del dittatore libico Muhammar Gheddafi, in procinto di entrare nella città ribelle di Misurata per farne strage.

Eppure, detto en passant, non c’è più nessuno che rivendichi la “moralità” di quell’intervento, tutt’altro: viene aspramente criticato per aver provocato la caduta del regime di Gheddafi e l’instabilità nel paese. Al di là di questo caso, la resistenza ad un regime autoritario o ad un’aggressione dall’esterno rimane in capo ai cittadini del paese.

Tuttavia, di fronte alla violenza non vi è solo la risposta armata. La guerra in Ucraina ha rinvigorito la voce di chi considera possibile soltanto il ricorso alle armi, al punto da considerare chi rifiuta questo strumento un imbelle, un complice o un “panciafichista”, secondo la celebre espressione mussoliniana (e proprio questo ricordo, forse, non è estraneo alla postura amazzonica di Giorgia Meloni nel conflitto ucraino).

Resistenza non violenta

Eppure lo studio di Erica Chenoweth e Maria Stephan, Why Civil Resistance Works: The Strategic Logic of Nonviolent Conflict (Cambridge UP, 2011), recentemente tradotto e attualizzato in francese, Pouvoir de la non violence. Puorquoi la résistance civile est efficace (Camann-Levy 2021), dimostra che «la resistenza non violenta è stata strategicamente superiore alla resistenza violenta durante il ventesimo e il ventunesimo secolo». Su 323 movimenti di resistenza civile censiti, quelli non violenti hanno avuto molto più successo delle azioni violente le quali, solo nel 27 per cento dei casi, hanno raggiunto i loro scopi.

La probabilità che un regime conceda concessioni, anche limitate, a un’opposizione non-violenta è 12 volte superiore ai casi in cui l’opposizione è violenta. Inoltre, i sostenitori dei regimi autoritari, come i dipendenti pubblici, le forze di sicurezza e la magistratura, sono più propensi a spostare la loro fedeltà verso gruppi di opposizione non-violenti piuttosto che verso componenti violente. Se infatti i movimenti di resistenza minacciano con vendette e ritorsioni i membri del regime, costoro difficilmente prenderanno in considerazione un passaggio di fronte, e continueranno a sostenere il regime.

Questa analisi sfida la convinzione comune che la resistenza non-violenta sia efficace solo quando è esercitata in regimi democratici o relativamente cooperativi. Al contrario, anche a fronte della repressione di un regime autoritario, la probabilità di successo della risposta non-violenta aumenta del 22 per cento rispetto ad una risposta violenta.

È vero che le narrazioni delle vicende nazionali sono sempre intessute dalle virtù eroiche dei combattenti, mentre le azioni non-violente, meno scintillanti ma spesso più efficaci, sono ignorate o riconosciute solo di sfuggita. Per cui, diventa normale vedere nella violenza l’arma indispensabile per ottenere la libertà dalla sottomissione, dimenticando quanta importanza abbia avuto, in molte lotte di liberazione, la resistenza non violenta guidata da civili.

C’è quindi un altro modo efficace di agire al di là del crepitio delle armi. In un contesto nel quale prende sempre più spazio un certo ardore guerriero, riflettere sulle potenzialità di un altro modo di agire è disintossicante.

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