A fine 2021, il debito pubblico italiano aveva raggiunto i 2.700 miliardi, circa il 150 per cento del Pil. È quindi lecito domandarsi se la crisi energetica, il ritorno dell’inflazione e la guerra in Ucraina possano riproporre in futuro il problema della sua sostenibilità. 

Secondo molti analisti e commentatori la risposta è negativa, e considerano l’attuale allargamento dello spread che giovedì si è allargato fino a 200 punti solo una reazione alla forte volatilità dei mercati a seguito della guerra.

Si argomenta che il debito è aumentato ma il suo costo è sceso grazie ai tassi negativi e agli acquisti della Bce, rendendolo sostenibile; e si pensa che il debito acquistato dalla Bce verrà in qualche modo cristallizzato nel suo bilancio.

La ripresa, anche grazie al Pnrr, è forte e la crescita superiore alle attese; il disavanzo pubblico si sta riducendo e beneficerà degli introiti sulle cedole dei Btp detenuti dalla Banca d’Italia per conto della Bce. Inoltre, la pandemia ha cambiato la governance economica dell’Eurozona, con la prima mutualizzazione del debito europeo e i massicci acquisti di titoli da parte della Bce, mandando in soffitta il Patto di Stabilità.

Mai io penso che sarebbe un grave errore dare per scontata la sostenibilità del nostro debito e pensare non vi sia alcun rischio di una crisi finanziaria che ci veda all’epicentro.

Il problema degli eventi rari

Una crisi finanziaria è per definizione un evento raro e, di conseguenza, è un rischio che non viene preso in considerazione nelle decisioni e nei comportamenti di investitori e policymaker finché non si manifesta, cioè quando la crisi è scoppiata.

Alla guida, siamo consapevoli razionalmente della possibilità di un incidente grave o mortale, ma non ci comportiamo come se l’incidente fosse una eventualità plausibile: la mente umana infatti calcola molto bene le probabilità degli eventi ricorrenti, ma male quella degli eventi rari.

Inoltre, la percezione del rischio dipende da quale è stata la nostra recente esperienza. Lo stesso vale per le crisi finanziarie: per quanto il mercato non ritenga realistico in questo momento lo scenario di una crisi del nostro debito, non significa che il rischio non esista.

I rischi percepiti, poi, sono solo quelli dei quali abbiamo esperienza diretta. Questo spiega per esempio perché il rischio di una pandemia sia stato a lungo ignorato, rendendo così devastanti le sue conseguenze economiche: non c’era nessuno che ricordasse l’epidemia di Spagnola del 1918. E pochissimi ricordano l’invasione di uno Stato europeo, come quella che sta accadendo in Ucraina.

Il grafico dello spread del nostro decennale rispetto all’equivalente tedesco bene illustra questo punto.

Dall’avvio della moneta unica e fino alla crisi dei mutui subprime del 2008 lo spread era praticamente inesistente: con l’euro, giudicato irreversibile, spariva il rischio di una svalutazione; come anche quello del default di un debito sovrano, ritenuto impossibile in assenza di una svalutazione che ne potesse attenuare il costo.

Il default della Grecia ha dimostrato invece che questo rischio è reale. E da allora lo spread italiano non è mai sceso sotto i 100 punti, premio per un rischio latente sempre esistito, ma non percepito.

Gestire il rischio

La costituzione del Mes (il cosiddetto Fondo Salva Stati) e il suo nuovo statuto che l’Italia deve ancora ratificare, è la conseguenza del nuovo rischio emerso: il Mes è infatti l’istituzione preposta a gestire le crisi del debito pubblico nell’Eurozona, e se del caso anche la sua ristrutturazione.

La Lega si oppone alla sua ratifica perché ritiene che l’istituzione sia superata per via degli acquisti dei titoli della Bce, e controproducente perché aumenterebbe la probabilità di un default, certificando nel suo Statuto la possibilità delle ristrutturazioni del debito. Ma questo è confondere la causa con gli effetti: il rischio di una ristrutturazione del debito o di una crisi finanziaria che imponga delle condizionalità all’Italia esiste, con o senza il Mes.

Il grafico dello spread aiuta anche a ipotizzare in che cosa, nell’esperienza degli investitori, consisterebbe una crisi se venisse meno la fiducia nella sostenibilità del nostro debito.

Il rischio Italia da 2008 in poi è stato vissuto come un’impennata dello spread, che rapidamente si autoalimenta fino a un livello al quale la crisi rientra per un qualche evento esogeno: il “whatever it takes di Draghi e il governo Monti nel 2011 (spread a 500); la posizione ferma del presidente Mattarella sull’indissolubilità dell’euro con il governo giallo-verde (spread 340), o gli acquisti eccezionali della Bce subito dopo lo scoppio della pandemia (spread 260).

Si è sempre ritenuto infatti che il debito italiano fosse troppo grande per considerare realistica una sua ristrutturazione senza mettere a repentaglio la moneta unica.

È dunque pensabile rivedere lo spread a 400-500 punti? E quale sarebbe questa volta il meccanismo che ricostituirebbe la sostenibilità del nostro debito, e in ultima analisi salvaguarderebbe l’esistenza dell’euro? La prima risposta è affermativa. La seconda nessuno può saperla.

L’innesco della crisi

Ogni crisi necessita un innesco. La crisi energetica e la guerra in Ucraina da un lato costituiscono di fatto una tassa su tutti i settori non energetici riducendo la crescita e, al tempo stesso, un fattore di accelerazione dell’inflazione, che a sua volta riduce il potere di acquisto dei salari.

Le previsioni su cui si basa l’ottimismo sulla dinamica del rientro del nostro debito rischiano dunque di dover essere riviste. La Bce si trova in una posizione difficile: probabilmente ritarderà l’aumento dei tassi che il mercato prevedeva per quest’anno, e potrebbe rinviare la fine degli acquisti di titoli. Ma non a lungo.

I costi sociali di un aumento dell’inflazione metteranno pressione alla banca centrale affinché agisca nel contrastarla, a prescindere dalla sua capacità di farlo di fronte a shock dell’offerta.

Inoltre, i tassi negativi stanno avendo effetti devastanti su previdenza e assicurazioni tedesche, basate su rendimenti di mercato, rendendo la Bce impopolare nella prima economia europea.

Se è dunque pensabile un rinvio del ritorno alla normalità nella gestione della politica monetaria, con tassi positivi e fine degli acquisti di titoli, non lo sono eventuali massicci interventi a sostegno di titoli italiani.

Anche durante i passati episodi di crisi, l’Italia ha quasi sempre mantenuto un avanzo primario (imposte meno spese prima degli interessi), mentre ora, con le elezioni politiche in vista, sarà difficile tornare indietro rispetto alla “spesa del consenso”, avviata dal governo giallo-verde, e la pioggia di bonus e sussidi erogati con la pandemia.

Secondo alcuni, la durata media del debito di quasi 7 anni lo renderebbe impermeabile ad aumenti di tassi e ridurrebbe la necessità di ricorrere al mercato per rifinanziarlo: un’argomentazione che ignora come le crisi siano una questione di stock, non di flussi.

Per innescare la crisi, basterebbe che gli investitori privati (italiani ad esteri) decidessero di ridurre i 1.200 miliardi Btp che già detengono. E in questo caso è impensabile che la Bce possa credibilmente sostituirsi ad oltranza all’investitore privato. Il presidente del Consiglio Mario Draghi non è un supereroe della Marvel che brandisce lo scudo della credibilità a nostra difesa.

Parlare di sostenibilità del debito non significa evocare una crisi, ma riconoscere un rischio, per quanto a bassa probabilità, per cercare di evitarlo. Perché le crisi, una volta scoppiate, si può solo pagarne le conseguenze.

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