C’è una grande notizia: una politica estera italiana esiste – a prescindere da cosa ne farà il nuovo governo. Chi fra la gente comune se ne era accorto? Eppure ce lo ricorda in questi giorni un magnifico articolo di Mario Giro. Esiste una tradizione, ricorda Giro, che risale (almeno) alla prima Repubblica: “cercare canali anche quando infuria la battaglia, senza mettere in dubbio le nostre appartenenze e alleanze”.

Tradizione radicata nella «nobile arte del dialogo che deve molto all'umanesimo italico costruito nei secoli e che mira alle tattiche elettive per risparmiare il sangue». Giro offre molti esempi, da cui si evince che, più che all’atlantismo cui tuttavia è sempre rimasta fedele, questa tradizione pare ancorarsi alla vocazione europea che il migliore pensiero filosofico e politico italiano ha tanto largamente, pacificamente nutrito.

Ancorarsi, pare, alla “vecchia Europa”, quella del nucleo fondatore dell’Unione europea, più che alla “nuova Europa”, quella degli stati che per comprensibili ragioni storiche sono tanto fieramente ostili a ogni ipotesi di negoziato con la Russia. Ma quello che Giro ci ricorda è un fatto presente, oltre a una tradizione.

C’è stato l’incontro a Roma, con Emmanuel Macron e il papa ospiti della Comunità di Sant’Egidio. C’è stato l’immediato spiraglio di un’apertura russa (quale che sia la sua credibilità) a un negoziato in definitiva promosso dallo stesso papa. C’è stata la lettera degli ex-diplomatici italiani che ci chiede «fiducia nel realismo della diplomazia: la Farnesina è stato infatti l’unico ministero degli esteri a stilare un progetto di pacificazione», come scrive Giro.

Già, anche di questo fatto, come mai si è parlato così poco? Avevamo avuto sentore di un’iniziativa di pace da parte del governo Draghi. Sembrò messa abbastanza bruscamente in sordina da Washington, e non se ne sentì più parlare. E invece c’è.

Ne scrive anche Lucio Caracciolo nella sua molto inquietante presentazione del numero 5/2022 di Limes, Il manicomio di Babilonia. «Per la prima volta da tempo immemorabile Roma propone una sua autonoma trattativa di pace in una crisi di taglia globale».

Gli eredi degli “spiriti liberi”

Siamo in molti, noi europei angosciati dalla prospettiva del conflitto globale – e non solo per la nostra vita fisica, ma anche e soprattutto per la spaventosa sconfitta degli ideali di cui abbiamo vissuto.

Quelli di noi, intendo, che furono sempre impermeabili alla logica di schieramento della guerra fredda perché istruiti dagli “spiriti liberi” del Novecento, da Simone Weil a Albert Camus, da Ignazio Silone a Nicola Chiaromonte, da Czeslaw Milosz a Jeanne Hersch, da Gustaw Herling a Zvetan Todorov: e che videro nel grande sogno e nel preciso pensiero di Altiero Spinelli l’anima vera, ideale e morale oltre che realistica e politica, della costituenda Unione europea. E tutti i loro figli e nipoti, anche quelli troppo giovani perché l’esperienza morale del Novecento li potesse formare.

Ecco, a chi da molti mesi ci assale con «anatemi» – sempre per citare Giro -  come le accuse di resa, antioccidentalismo, antiamericanismo, filoputinismo o simili, ma soprattutto irride alla nostra “astrattezza” consigliamo la lettura della sintesi in quattro punti che Lucio Caracciolo fa del piano della Farnesina, o quella degli ex ambasciatori.

Non improvviseremo una conoscenza geopolitica che ci manca del tutto: chi vorrà informarsi non farà fatica. La cosa importante è «l’orizzonte strategico dell’Italia, avversa alla tentazione di farla finita con Mosca», suggerisce Caracciolo. L’orizzonte futuro di un accordo paneuropeo, Russia inclusa, «sui criteri ed equilibri della nuova pace. Helsinki bis».

Come sempre accade con i fatti storici, che una politica di pace specificamente italiana esista davvero, dipende anche da noi. Se il mondo vedrà, il 5 novembre a Roma, quanto forte, grande, trasversale, immaginativa sia la nostra volontà di pace e giustizia, quanto diversamente colorata dalle centinaia e centinaia di associazioni che le danno vita, allora l’iniziativa dall’alto acquisterà vigore e autorevolezza. E dire dall’alto è dir poco.

Non solo perché le piazze hanno sopra di sé solo l’aperto cielo, ma perché a Roma quel grido di pace risponde alla preghiera di Francesco – e non c’è nome che più di questo evochi al mondo il soffio improvviso e tenue di cui s’accende la possibile grazia dell’umano, quando tutte le ragioni sembrano infrante e perdute.  

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