La guerra di aggressione di Putin è un atto criminale. Irrompe sulla scena internazionale e ci mostra come i conflitti del nuovo secolo non siano – nelle conseguenze sulla vita delle vittime – diversi da quelli del secolo passato. La messa in scena è sempre di una violenza estrema: per conquistare qualche centimetro di territorio si interrompono vite, distruggono città, spezzano relazioni, causano morti e dolore a milioni di individui. La nostra solidarietà è per loro, per ciascuno di loro.

Questa scelta di fronte all’orrore dell’invasione russa – di cui l’Occidente, e in particolare l’Italia, ha colpevolmente sottovalutato una condotta di comando che manifesta da decenni il disprezzo per i principi della vita e della dignità umana – è l’unica cosa semplice che si dà oggi.

A partire dalla quale vi è una profondità morale che impone di misurare le parole e di rispettare legittime posizioni che ci dividono, a cominciare dal modo di solidarizzare con le vittime, di fermare il prima possibile le operazioni militari, di depotenziare la politica di Putin. Poiché la nostra discussione pubblica non è direttamente foriera di decisioni, dovremmo se non altro cercare di comprendere le implicazioni che comporta, per rendere ragione della radicalità delle scelte etiche con cui ci confrontiamo.

Mettere al centro la dignità umana

La forza morale e politica delle democrazie liberali risiede nel mettere al centro delle decisioni la dignità umana, una condizione che si rispecchia nella forma del discorso pubblico, retto sullo scambio rispettoso di opinioni e ragioni, non su violenza e discriminazione.

Il nostro compito è dunque preservare questa sfera pubblica, rispettare le dignità di ogni partecipante, usare argomenti razionali per comprendere insieme quale sia il modo più opportuno per stare dalla parte delle vittime e indirizzare gli eventi verso una pace giusta e duratura.

Non è retorico perciò il richiamo a quest’etica della responsabilità, che riguarda le forze direttamente in campo, i decisori politici terzi, col compito di trovare vie alternative per sanare un conflitto che riguarda anche tutti noi, partecipi alla costruzione delle opinioni.

Troppo spesso dimentichiamo che questo conflitto si inserisce nel contesto di una potenziale catastrofe atomica. Dobbiamo tutte/i essere ben consapevoli che una sua escalation contiene in sé la possibilità di distruzioni enormi, non più sperimentate dall’agosto del 1945.

Da allora l’umanità e i popoli hanno fatto i conti incessantemente con questa eventualità. Una consapevolezza che non può essere lasciata a latere dei nostri discorsi, ma che piuttosto dovrebbe condizionarli e orientarli. In questo mese, il XXI secolo è precipitato nell’era atomica.

In Europa ci eravamo disabituati a percepire la dimensione tragica di quest’epoca; e la disabitudine è resa palese anche dall’irresponsabile spettacolarizzazione della guerra, quotidianamente oggetto di polemica nei talk show televisivi.

Un contesto in cui il richiamo all’etica della responsabilità non è vano, né retorico: dovrebbe ricordare agli attori in campo – a partire da noi comuni cittadini che dibattiamo con le parole – che siamo testimoni di uno scontro che va contenuto e fermato il prima possibile.

A questo fine, vi sono in campo tentativi di mediazione diplomatica in cui riponiamo le speranze. A essi, vorremmo si aggiungesse un ruolo più deciso, attivo e autonomo dell’Europa, consapevole della funzione pacificatrice che la sua storia recente e la sua cultura le consentono e le impongono.

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