Siamo alla seconda fase della guerra: le truppe russe si posizionano a est e a sud cercando di tagliare in due il paese e isolare la gran parte dell’esercito ucraino schierato dal 2014 sul fronte del Donbass.

Si innesca poi una terza terribile fase: una lunga guerra di attrito lungo la linea da Lugansk, a Donetsk, a Mariupol fino a Mykolayiv e Odessa. È facile immaginare che possa durare anni senza che nessuna delle due parti si consideri battuta.

Tale eventualità deve essere assolutamente evitata per non trasformare l’Ucraina – e l’Europa tutta – in una zona di guerra permanente, qualunque ne sia l’intensità. Com’è ovvio i falchi di entrambi gli schieramenti cercheranno di radicare un conflitto durevole, appoggiati dalle lobby opportuniste del commercio delle armi e degli idrocarburi.

Quando c’è una guerra c’è sempre chi guadagna sulla pelle di chi combatte. Per opporsi a tale eventualità l’Unione europea dovrebbe lucidamente fare delle scelte sfuggendo a un destino ineluttabile solo in apparenza: è questo il terreno per la nuova politica europea comune. Invece che immobilizzare il dibattito attorno alla questione delle armi, le leadership europee dovrebbero cimentarsi sul dossier della pace secondo l’interesse europeo.

Le armi all’Ucraina sono state già date: dal 2015 ad oggi circa 4 miliardi di dollari, com’è descritto nei briefing del Congresso americano, assieme ad addestramento e logistica. La guerra dura dal 2014 e si è cercato di vivere come se non ci fosse.

Nessuno ha davvero voluto onorare la firma degli accordi di Minsk (il Donbass non ha smilitarizzato; Kiev non ha offerto l’autonomia rafforzata) ritenendoli ingiusti o incompleti. Il conflitto è continuato sotto traccia fino a riesplodere con l’invasione russa.

Il pensiero paralizzato

Una delle caratteristiche della guerra è proprio quella di occupare tutti gli spazi di riflessione, devitalizzandoli e cercando di rendere il discorso sulla pace irrilevante. Quando scoppia una guerra il pensiero si paralizza e tutti si concentrano a schierarsi, polemizzando su chi ha torto e chi ha ragione.

Tale è il metodo mimetico della guerra: distogliere l’attenzione da sé per portarlo sui combattenti e sulle loro ragioni. Ne conseguono interminabili congetture sulle argomentazioni dell’uno o dell’altro, piegando anche la storia sulla base dei propri convincimenti.

Nel frattempo - mimetizzata – la guerra va avanti e cerca di creare le condizioni (materiali e psicologiche) per il suo protrarsi, fino a diventare permanente. È questa l’ambizione massima: un mondo sempre in guerra, di scontri o almeno di contrapposizioni. Gli esperti in geopolitica non fanno che illustrare tali geometriche probabilità.

È il metodo attraverso il quale la guerra viene riabilitata culturalmente. Occorre dunque concentrare l’attenzione sulla guerra stessa, sulla sua atroce essenza: essa non è mai soltanto uno strumento per affermare qualcosa (un’idea, una politica, un disegno strategico giusto o ingiusto che sia) ma è soprattutto un ingranaggio che si impadronisce del destino umano togliendogli il libero arbitrio. Quando si è in guerra infatti, le scelte sono ridotte all’osso: combattere o perire. Non c’è più libertà di scelta: chi cerca un’altra via è considerato traditore, vigliacco o ingenuo.

Così sta avvenendo anche nella guerra ucraina: discuterne senza polarizzazioni è divenuto quasi impossibile. Più l’orrore aumenta (vedi Bucha o Irpin) è più si è indotti a prendere una parte, lasciandosi trascinare in un gorgo del quale i pochi veri decisori politici hanno posto (o lasciato porre) le condizioni per la sua prosecuzione.

apa Francesco si scandalizza giustamente del riarmo che crea le condizioni basiche per ogni guerra. Per il papa ogni guerra è sacrilega, cioè contraria alla sacralità della vita umana. È la guerra il vero nemico: rappresenta la follia del male che va arrestato al più presto.

Più il conflitto dura e più si pongono le condizioni per quello successivo, cioè del ciclo infinito delle vendette. Si sente dire nei talk show che la guerra arresta le guerre ma la storia ci dice il contrario: più guerra genera più guerre. Ogni guerra prolungata crea le condizioni di quella successiva. Per capirlo basta un po’ di psicologia umana.

Per questo va abbreviata e terminata quanto prima. L’unica via per uscirne davvero è il disarmo: disarmare le mani, per in seguito disarmare le emozioni e gli animi. Tanta violenza verbale nelle nostre tv fomenta la contrapposizione che favorisce l’assuefazione alla guerra.

Aver interrotto da circa vent’anni i processi di disarmo iniziati al tempo della distensione, ha portato all’aver di nuovo accettato la guerra come inevitabile compagna della storia umana. È tempo di tornare alla ragionevolezza del “never again” del secondo dopoguerra e ricominciare a disarmarsi a vicenda.

Una sequenza inesorabile

Come tutte le guerre, anche la guerra in Ucraina copre nefandezze di ogni tipo (come le terribili immagini di Irpin e Bucha) e trasforma i combattenti in peggio. La guerra deturpa l’anima dei popoli che la fanno o la subiscono, anche di quelli che si difendono.

La guerra tira fuori il peggio da ciascuno. L’esperienza insegna che i paesi che vi sono trascinati ne escono deteriorati, inaspriti, regrediti, peggiori di come vi sono entrati.

Per i cristiani si tratta di un terreno impossibile: la guerra è sempre fratricida, nemica della vita (umana, di ogni essere vivente e della natura: in una parola del pianeta intero), un male da abbreviare al più presto e ad ogni costo. Ma anche per i laici è così e Kant lo diceva in modo semplice: «La guerra elimina meno malvagi di quanti ne crea».

Se questo non è abbastanza convincente si pensi alle guerre fatte nell’ultimo trentennio: guerre nei Balcani, guerre del Golfo, Afghanistan, Siria, Libia ecc. Nessuna di esse ha risolto qualcosa né ha corrisposto alle ragioni invocate per iniziarle ma ha solo peggiorato le situazioni, creando altro caos. Si tratta di un’osservazione oggettiva a cui non si può sfuggire.

Laddove si sono sviluppati tali conflitti, oggi non c’è né ordine, né stabilità, né riconciliazione né democrazia ma covano solo odio, rancore e spirito revanscista. Quando sono iniziati si è svolto sempre lo stesso film (nella politica, nella società e nei talk show) suddiviso in tre atti. Nel primo atto tanta agitazione, eccitazione, bellicismo, accuse ai tiranni, critiche a chi esprime dubbi, denigrazione delle ragioni della pace, voglia di regime change.

Insomma: l’abbaglio della guerra che risolve, della guerra giusta. Nel secondo atto avvitamento del conflitto, creazione di ulteriore caos e nuove instabilità, fake news, fallimento di tutti gli obiettivi, drammi umanitari e danni collaterali che espandono l’odio. Alla fine di questo atto c’è la fuga, sia dalle responsabilità e dalle conseguenze che letterale.

Nel terzo atto: silenzio degli (ex) bellicisti politico-mediatici, nessuna autocritica. Si fa finta di nulla almeno fino alla prossima guerra e il ciclo ricomincia. Sarebbe bene tenere a mente tale sequenza e non commettere altri errori. Schierarsi è impulso comprensibile, soprattutto laddove c’è un’aggressione ingiustificabile. Subito dopo però occorre ragionare lucidamente.

La sorgiva simpatia per il popolo ucraino aggredito e il rispetto per la sua resistenza sono condivisibili. Più problematica l’idea di prolungare la guerra: oltre a moltiplicare le sofferenze dei civili, si rischia di cadere nelle mani di chi vuole renderla perenne, manipolando il caos.

Tale ingranaggio è da evitare: non esiste nessun argomento convincente per il prolungamento, nemmeno quello della difesa della democrazia. La democrazia si difende davvero assicurando le ragioni (e la ragionevolezza) della pace anche di fronte all’aggressore, contenendo e poi spegnendo il suo infondato revanscismo vittimistico.

Alla fine occorrerà comunque conviverci e non si convive in stato di perenne conflitto ma solo in pace. Questa è la lezione della storia europea e la ragione profonda della nascita dell’Unione europea.

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