Non si nasce guerra mondiale ma lo si può diventare. La guerra tra Russia e Ucraina ha tutte le caratteristiche per divenirlo: a ciò potrebbe puntare la dirigenza russa dopo essere stata sconfitta nella prima fase del conflitto e aver perso la faccia.

Il rifiuto di intavolare negoziati (da parte di chiunque) apre alla possibilità di un allargamento della guerra, sia dal punto di vista degli attori che delle armi: un’escalation che va assolutamente evitata. L’Italia ha un nuovo governo, una nuova premier e un nuovo ministro degli Esteri.

Nelle loro mani è la possibilità di una svolta verso la tregua e poi la pace. Sarà un cammino politico-diplomatico lungo e difficile ma va iniziato subito per evitare il peggio, a partire dal cessate il fuoco.

A tal scopo è urgente ricordare la tradizione italiana della prima repubblica in caso di guerra e tensioni internazionali: fare due cose allo stesso tempo senza che ciò crei scandalo. In altre parole: restare schierati ma anche aprire alla possibilità del negoziato. Si possono fare due cose assieme.

La politica estera della prima Repubblica ci ha lasciato tale eredità storico-politica: in caso di grave conflitto l’Italia si è schierata sempre e senza dubbi con le democrazie, il patto atlantico e l’Europa. Allo stesso tempo tuttavia non ometteva mai di cercare vie di negoziato e di pace, senza vergognarsene e attirandosi il rispetto.

Lo fecero Aldo Moro, Giulio Andreotti, Bettino Craxi e altri, per il Medioriente, in Africa, nei Balcani. Sono storie note. Per spiegarci citiamo qui un caso limite: quello di Amintore Fanfani e di Giorgio La Pira che ebbero l'ardire di cercare una via di dialogo per la guerra del Vietnam, tentando di costruire un tavolo negoziale Usa-Nord Vietnam, triangolando con la Polonia comunista.

La cosa non andò in porto ma nessuno - nemmeno gli americani pur contrari - delegittimò l'idea italiana. Né tanto meno si mise in discussione l’appartenenza dell’Italia alla Nato o la sua alleanza con gli Usa. Nessuno gridò al tradimento. Molto più mediatizzata la controversa vicenda di Sigonella, in cui l'Italia disse no a Washington. Tutto finì con il noto scambio di lettere tra Craxi e Reagan, «dear Bettino, dear Ronald».

Anche in quel caso, nessuno (salvo forse alcuni nel Pri) parlò di resa o di antiamericanismo. Israele protestò ma non cessò le relazioni con l’Italia. Questa è la tradizione politica della repubblica italiana.

La domanda che ci si deve fare è perché ciò oggi non sarebbe più valido. Pare che cercare vie diplomatiche di negoziato sia divenuto sinonimo di resa, antioccidentalismo, antiamericanismo, filoputinismo o simili cose. L’attuale polemica sa di forzato e di artefatto perché utilizza il solito vecchio trucchetto del “pro e contro” che schiaccia le posizioni ed invita ad alzare i toni. Su questa tragica guerra condanniamo tutti risolutamente la Russia che si è presa l’assurda responsabilità di iniziarla.

Siamo altresì tutti ammirati dall’eroica resistenza del popolo ucraino: aiutarlo e sostenerlo a resistere militarmente resta un fatto politicamente legittimo. Ciò ha una corrispondenza nella società italiana: moltissimi hanno aiutato in vari modi, accolto, inviato aiuti e continuano a farlo. Ma non basta: c’è urgente bisogno di discutere come se ne esce, perché nessuno può davvero preferire una guerra permanente con la Russia, un allargamento del conflitto o un rischio nucleare.

Abbiamo bisogno di un’Europa stabile, libera e in pace. Su come raggiungere tale obiettivo vi possono essere  diverse opinioni: tentare di trattare subito; farlo dopo; punire la Russia perché non ricominci; non punirla perché tale politica è fallimentare e pericolosa; puntare al regime change per avere una nuova leadership russa; non puntarci perché il peggio non è mai morto (e gli ultimi tentativi di regime chance si sono rivelati fallimentari).

Ma per discutere di queste importanti alternative occorre abbandonare le accuse e gli improperi (antimericano, guerrafondaio, resa, filorusso o filoamericano, imperialista e così via). Nessuno ha la soluzione in tasca, specie davanti al pericolo atomico. Peggio ancora se la questione viene data in pasto al commercio politicistico in cui ci si divide solo per non perdere la piazza o la faccia: gioco inutile e penoso in cui anche la parola “pace” viene manipolata.

Manifestare per la pace è sempre giusto e legittimo perché rende evidente la volontà profonda di pace dei popoli. Dal canto loro i politici si prendano la responsabilità di ciò che hanno dichiarato o votato fino ad oggi, senza cercare facili vie di fuga per sé. Si cessi altresì di alimentare un dibattito forzatamente diviso in due, come lo spin politico-mediatico vorrebbe. In questioni di guerra non servono i tifosi.

È invece utile una pacata, anche se allarmata e urgente, riflessione su cosa dobbiamo fare, come europei e come italiani, per uscirne. La nostra tradizione repubblicana di cercare canali anche quando infuria la battaglia, senza mettere in dubbio le nostre appartenenze e alleanze, è figlia di una cultura politica democratica, trasversale tra destra, centro e sinistra.

Si tratta della nobile arte del dialogo che deve molto all'umanesimo italico costruito nei secoli e che mira alle tattiche elettive per risparmiare il sangue. In questione di pace miriamo alla giustizia ma senza incatenarla alle ragioni di principio. La recente lettera dei nostri diplomatici torna a chiederci di avere fiducia nel realismo della diplomazia: la Farnesina è stato infatti l’unico ministero degli esteri a stilare un progetto di pacificazione.

Pensare ad un domani di pace è la caratteristica delle democrazie: esse non vivono di guerra come i regimi autoritari. Mentre tutto minaccia di bruciare attorno a noi, mettiamo assieme le migliori energie ed intelligenze per trovare una via di uscita da questa guerra, senza che tale sforzo venga considerato scandaloso. Ce lo indica la nostra tradizione nazionale e la nostra storia. Ce lo implorano le innumerevoli vittime di questa guerra: le vittime ucraine ma anche il grido soffocato di tanti russi che non possono parlare. 

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