Si addensano le nubi della guerra nucleare.

Se ne parla troppo e con facilità: ci stiamo abituando a tale eventualità senza capire che l’utilizzo dell’arma atomica ci farebbe entrare in un altro mondo, aprirebbe una porta che non è stata mai aperta dopo Hiroshima. Le potenze nucleari non ragionano di pace e guerra come gli altri paesi: per loro non è questione di ragioni o principi e nemmeno di vittoria, ma di sopravvivenza (di una classe dirigente, di uno stato) anche a costo della totale distruzione. Questo riguarda l’Europa, che nell’attuale conflitto ha la ventura di stare in mezzo.

È la ragione principale per cui a Washington stanno lentamente cambiando posizione. Joe Biden parla di “armageddon”; il segretario di Stato, Antony Blinken, uno dei falchi dell’amministrazione, per la prima volta auspica il negoziato.

Anche le notizie date dall’intelligence americana sull’attentato ad Alexander Dugin, dove ha perso la vita la figlia Darja, che puntano sulle responsabilità ucraine, sono un segnale da considerare.

È come se gli Usa stessero dicendo a Volodymyr Zelensky e ai suoi che ci sono dei limiti da non superare, come azioni in terra russa.

Vediamo già la reazione all’attacco al ponte sullo stretto di Kerch.

La posizione americana

Incombono anche le elezioni di midterm negli Stati Uniti e i democratici non vogliono farsi trovare scoperti nel caso i repubblicani riprendessero il controllo del Senato, come molti analisti prevedono.

Donald Trump ha dichiarato più volte la sua contrarietà al conflitto e si può pronosticare che farebbe ostacolare ogni ulteriore fornitura di armi e tecnologia militare a Kiev. Gli Usa stanno paradossalmente convergendo con cinesi e indiani che hanno fatto sentire ai russi la loro contrarietà durante il vertice del gruppo di Shanghai a Samarcanda. Anche la Turchia, dopo il successo dell’accordo sul grano, preme per ulteriori negoziati.

A Praga, durante la prima riunione della comunità politica europea, il presidente Zelensky ha chiesto ai 44 capi di governo europei di «punire la Russia». Altrove aveva auspicato un attacco preventivo per fermare il nucleare di Mosca. È troppo e l’Europa si spacca su questo.

Se tutti sostengono la resistenza ucraina, una buona parte non pensa che la narrazione della vittoria sia la strada giusta.

Solo polacchi, baltici, nordici e britannici paiono seguire l’opzione della guerra a oltranza. Gli altri temono di più il caos di una Russia a pezzi o dirigenti peggiori degli attuali. Ma più di tutto non si vuole correre il rischio nucleare. Si sgretolano le posizioni di principio e si fa avanti lentamente l’ipotesi del negoziato.

Nessuno – nemmeno gli americani – desidera essere preso al laccio da una logica di guerra senza sbocchi, né diventare ostaggio di una situazione priva di spazi di manovra.

Dire che non si negozierà, o che lo si farà solo quando i russi avranno abbandonato i territori occupati (anche quelli presi nel 2014? Anche la Crimea?), o soltanto con una nuova dirigenza russa o cose simili, assomiglia a una trappola autoinflitta.

Qualcuno pensa che sarebbe stato meglio reagire ben prima con le armi contro questa Russia: oggi sarebbe meno aggressiva.

Potrebbe essere vero anche il contrario: una leadership russa bellicosa ha bisogno di conflitto per sostenersi. Con la guerra permanente, l’occidente non la sta alimentando? Si tratta di domande tutte legittime, da una parte o dall’altra, ma che tuttavia diventano obsolete davanti al rischio nucleare. A quel punto non ha più senso parlare del passato, dei torti fatti o subiti, delle ragioni dell’uno o dell’altro, di chi ha attaccato per primo, di chi ha provocato, degli errori delle leadership, eccetera.

Non ha nemmeno senso fare analisi geopolitiche o confronti con altre crisi, oppure invocare il principio di convenienza.

No: tutto questo non ha davvero nulla a che fare con la guerra atomica perché con essa tutto cambia. Ecco la ragione del forte appello di papa Francesco che chiede una tregua e immediati negoziati: evitare l’escalation.

Dialogo a ogni costo

Il cardinale Matteo Zuppi rincara: dialogo a ogni costo pur di avere la pace. C’è chi eccepisce: quale pace? Aggiungendo tutta una serie di condizioni di principio. Saranno giustissime ma sono ormai fuori luogo: davanti al rischio di una guerra nucleare non c’è principio giusto che tenga. Va soltanto evitata prima che si apra il vaso di Pandora.

È solo la pace a contare: davanti all’atomica l’unica vittoria è la pace. Fa rabbia che il forte e il prepotente (armati di nucleare) prevalgano? Non è una novità della storia ma non vi è altra via d’uscita. All’inizio della crisi c’era chi diceva che combattere contro una potenza nucleare è diverso che fare una guerra convenzionale, anticipando l’attuale impasse.

Ora ci siamo e i russi hanno tenuto a informarci della loro “dottrina”: l’arma atomica non solo come deterrente (da usare cioè come bilanciamento contro un’altra potenza nucleare) ma anche come arma di ultima istanza. Anton Cechov diceva che se nel primo atto di una pièce c’è una pistola appesa al muro, nel secondo o nel terzo atto certamente sparerà.

Nessuno può garantirci che la Russia di Putin non ne farà uso: nessuno può conoscere dove passa la linea rossa che distingue la vittoria dalla sconfitta, la sopravvivenza del regime dalla disfatta. Più lo si mette all’angolo per punirlo e più si rischia. Non c’è vittoria in questo genere di guerre: l’unica possibilità è una pace duramente negoziata.

Chi sostiene che il negoziato sarebbe una resa non sa cosa significa negoziare. Una trattativa seria è in primo luogo un compromesso, in cui – ovvio – tutti cedono qualcosa. Si può arrivare al tavolo con l’intenzione di non cedere nulla ma qualcosa alla fine si cede. Il negoziato è l’unico modo per imbrigliare una potenza nucleare.

Uno dei veri problemi di questo tempo è aver lasciato deperire il sistema degli accordi di disarmo nucleare, dei quali ne è rimasto in vigore solo uno.

Ciò che più dovrebbe allarmarci come europei è che il trattato sull’eliminazione dei missili a medio e corto raggio in Europa (Inf), sottoscritto nel 1987 da Reagan e Gorbaciov, è stato abbandonato da entrambe le superpotenze. Nessun governo europeo ha protestato o ne ha chiesto ragione, nemmeno a Washington.

Lamentarsi oggi che una potenza nucleare, in questo caso la Russia, con le sue minacce ci impone la propria volontà è un po’ tardivo.

Tuttavia la cosa più importante da dire sul negoziato è che rappresenta un mondo a sé, un terreno sconosciuto anche alle parti, e che può riservare molte sorprese. Mentre durante una guerra le parti danno il peggio di sé, nella trattativa tutto cambia e può avvenire il contrario. Non si deve diffidare del negoziato né considerarlo una resa o una deminutio: è piuttosto una terra promessa per le parti che fa risorgere dentro di loro un desidero di futuro.

Come si arriva al tavolo

Dal punto di vista politico la Russia oggi vuole negoziare con gli Stati Uniti direttamente, per essere considerata loro pari e ritrovare lo status che ebbe con l’Urss. Non si deve pensare che ciò rappresenti un regalo: più importanza significa anche più responsabilità e quindi – in questo caso – più possibili concessioni.

Resta da dire come si giunge al tavolo. Occorre mettere il negoziato al centro delle possibilità e farlo diventare l’opportunità di ultima istanza. Innanzi tutto Usa e Russia devono ricominciare a parlarsi: difficile dopo tanta diffidenza e fake news ma è l’unica strada ed è una questione di volontà politica.

I temi devono essere la guerra, la strategia di sicurezza in Europa e la ripresa del disarmo nucleare. In secondo luogo chi ha sostenuto l’Ucraina con armi e aiuti deve concentrare i propri sforzi nello spingere le autorità ucraine a trattare. Si dice che la trattativa non deve passare sulle loro teste: per questo devono esserci anche loro.

Ci saranno delle concessioni (anche territoriali) da fare? È possibile ma la diplomazia internazionale sa essere creativa in casi simili, in modo che nessuno ci perda soltanto. Tale processo non è impossibile: basta uscire dall’idea della punizione, che può diventare un terribile boomerang.

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