L'inizio di tutto è stato l'incontro con la stampa del nostro ministro degli Esteri, Luigi Di Maio con il suo omologo cinese, Wang Yi. In questa occasione il ministro italiano, come molti nel paese, ha sfoggiato la sua abbronzatura estiva. Tutti ci abbronziamo, anch'io che sono afrodiscendente mi abbronzo, lo dico perché molti erroneamente pensano di no.

L'abbronzatura è un processo naturale che cambia la sfumatura della nostra pelle e racconta il nostro rapporto con il sole. C'è chi si abbronza troppo e chi troppo poco. Chi ha la pelle più fragile o chi semplicemente cambia la sfumatura della sua epidermide già scura. Tutto in regola. Ma non per il cosiddetto popolo del web.

Vedendo il ministro così abbronzato, per alcuni troppo abbronzato, e dopo averlo tacciato di poca professionalità e lassismo al lavoro, hanno cominciato a sostituire il suo viso scurito a neri e nere più o meno famosi per prenderlo in giro.

E così ecco Luigi di Maio nei panni di Michael Jordan a canestro, accanto al Totò in blackface del film Tototruffa, con l'abito sardo di Codrongianus che pochi giorni fa sfoggiava orgogliosamente Kary Khouma, una ragazza di origine senegalese cresciuta a Olbia. Poi abbiamo avuto il Di Maio straniero che balbetta qualcosa di incomprensibile in un italiano sgrammaticato o il Di Maio icona che fa la réclame di un lucido da scarpe rigorosamente color “testa di moro”.

Meme a sfondo razziale che hanno giocato apertamente con la pratica del blackface che consiste nel tingersi la faccia di nero per “indossare” il colore dell'altro ridicolizzandolo e inferiorizzandolo.

Il blackface è sempre esagerato. La pelle è sempre troppo scura, la bocca di norma è troppo rossa mentre i denti devono risultare esageratamente bianchi.

L’abbronzatura reale di Di Maio è stata trasformata dal web in una sorta di blackface figurato che ha fatto fremere di indignazione molti afrodiscendenti. Questo senso di profonda umiliazione si è acuito quando il ministro, invece di condannare il razzismo insito in quelle immagini denigratorie per una parte di società, ha condiviso i meme e ringraziato gli autori per avergli reso “questa giornata più leggera”.

Ma in questa storia non c'è niente di leggero. Perchè il blackface non lo è. E noi neri e nere lo sappiamo bene. Rendere i nostri corpi neri ridicoli significa offenderli, mortificarli. Tutto questo è solo l'anticamera di una violenza che può abbattersi su di noi da un momento all'altro.

Essere neri significa vivere, come ha più volte sottolineato il saggista afroamericano, Ta-Nehisi Coates, nella costante paura di perdere il proprio corpo. Nel terrore di essere distrutti. E non importa cosa si sta facendo: si può dormire come Breonna Taylor e essere crivellati di palottole in Ketucky o sognare di studiare e lavorare come tanti ragazzi del Sud globale e poi finire ingoiati nelle fauci del mar Mediterraneo. Questo misto di ridicolo e violenza ha sempre accompagnato le pratiche razziste.

Il blackface originario infatti serviva esattamente a questo doppio scopo. Gli attori bianchi venivano truccati con turaccioli, cera e altri materiali per interpretare gli schiavi della piantagione e gli schiavi liberati. Ma non era mai la vera vita di un nero quello che veniva portata in scena, soltanto una sua caricatura disumanizzante.

I minstrel show erano un catalogo di luoghi comuni in base ai quali il nero e la nera erano tonti, pigri, sempre eccessivamente devoti ai bianchi, canterini e senza spina dorsale.

Il nero era una oggetto, non una persona. E se sei un oggetto, chi si considera superiore a te può anche distruggerti.

Pensiamo solo alla figura della mummy (che poi sarà usata anche dal cinema) in questi spettacoli: una donna strabordante, impacciata, vestita sempre male, asessuata, che in testa ha solo la famiglia del padrone e mai la sua. Una domestica, ma che fa parte della famiglia bianca come può farne parte un cane devoto. Ma se negli spettacoli mummy, la donna nera, è innocua, nella realtà delle piantagioni le schiave venivano usate come “cose” che servivano al padrone o ai suoi figli quando avevano bisogni carnali.

Il racconto divertente della innocua e asessuata mummy, una dei primi personaggi in blackface, nascondeva di fatto lo stupro della donna nera.

In generale il blackface – dagli Stati Uniti all’Italia coloniale - è servito a rafforzare gli stereotipi disumanizzanti sui neri.

Ecco perché veder “indossato” il nostro colore ci fa così male, come ci fa male minimizzare la portata razzista di questa pratica.

Sarebbe troppo facile archiviare la faccenda buttando tutto sulle spalle del ministro Luigi di Maio e innescare una polemica politica. Il problema è la nostra società nel suo insieme, ovvero tutte quelle persone (moltissimi i progressisti di sinistra e di estrema sinistra) che hanno continuato a dirci “ma sono meme innocui”, “ma è solo ironia”, “fatevi una risata”.

A commenti simili Adil Mauro, giornalista e influencer italo-somalo, giustamente ha risposto così “Ma ce l'avete un minimo senso della misura? Sapete cosa voglia dire sentirsi fare battute sul colore della pelle? No, e allora cosa diamine vi costa ascoltare quello che abbiamo da dire al riguardo e risparmiarci i vostri giudizi su quelle che secondo voi dovrebbero essere le nostre priorità?”.

Eccolo qui il punto di tutta questa storia: l'ascolto. Questo è mancato, sia da parte dell'istituzione coinvolta sia da parte di quei cittadini che ci chiedevano di minimizzare.

Un paese come il nostro, dove ancora circolano indisturbati stereotipi, fantasmi coloniali e miti del fascismo, dove il razzismo ha rialzato la testa, dove abbiamo la legge Bossi-Fini che rende la vita di un migrante un inferno, dove la gente muore nel Mediterraneo e dove ancora manca una riforma organica della legge sulla cittadinanza per i figli di migranti, ecco in un paese come il nostro dobbiamo cominciare ad ascoltarci l'un l'altro se vogliamo costruire una società migliore, inclusiva e davvero transculturale.

I problemi da risolvere sono tanti, ma senza una base di rispetto non possiamo fare molta strada. In Canada il premier Justin Trudeau dopo un incidente simile (blackface a una festa scolastica) ha fatto le scuse alla nazione e l'episodio è diventato un momento di riflessione collettiva del paese.

Il passato esiste, il passato è stato crudele, il passato ci ha diviso, ma abbiamo ancora il futuro nelle nostre mani.

Ecco perché spero che questa storia non finisca nel dimenticatoio come la solita polemica di fine estate, ma che diventi per tutti noi, istituzioni comprese, una possibilità di crescere come nazione e finalmente confrontarci con il dilemma razziale che attanaglia la penisola.

Igiaba Sciego è una scrittrice italo-somala, il suo ultimo romanzo, pubblicato da Bompiani, è La linea del colore.

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