McKinsey, la società specializzata nel fornire analisi, consigli e, quanto meno, un Power point, ha scoperto nel sistema hollywoodiano un tallone d’Achille che gli fa perdere ogni anno una decina di miliardi. Pare infatti che i grandi gruppi americani (Disney, Warner e compagnia) siano arenati nelle culture bianche da sempre dominanti e non estraggano né soldi né passioni da altri pubblici, per quanto numerosi. L’incaglio pare sia nello stesso cuore creativo del sistema, fra i soggettisti, producer, sceneggiatori che pensano le storie e le avviano in produzione. Decennio dopo decennio quest’insieme di talenti si è sedimentato. Ma esiste una diversità, un angolo visuale che non è stato mai integrato fino in fondo: la componente afroamericana, sicché per Hollywood il pensare “nero” è cosa estranea.

Stranieri a casa propria

La conseguenza è che il pubblico afroamericano, circa un sesto del paese, vede i film e la tv “americana” per così dire “dal di fuori”, come capita anche a noi, che ci piangiamo o ne ridiamo, ma come di un prodotto che non ci rappresenta se non per linee molto generali.

I cittadini afroamericani invece sono, per così dire, stranieri a casa propria e si guardano le offerte passate dal convento, ma meno di quanto farebbero se ci si rispecchiassero in modo più specifico e convincente.

Non deve trarre in inganno la grande quantità di eroi neri che vediamo sugli schermi. McKinsey osserva infatti che li troviamo solo ai due estremi delle situazioni e dei caratteri. A un estremo i super neri padroni di un magico metallo nel favoloso e segreto regno africano di Wakanda, da cui compiono incursioni che determinano il destino dei normali. All’estremo opposto c’è il nero non eroe, come il Denzel di Barriere, che si dibatte nella condizione di un fiero quanto rassegnato netturbino a Pittsburg. Tanto più questi poli paiono calzare a pennello al retaggio non detto di quella società post schiavista che nel servo d’un tempo vede sia l’Angelo vendicatore (il Django di Tarantino) che la prova continua, dallo zio Tom in poi, di una colpa non dimenticabile.

In mezzo agli opposti stereotipi c’è ovviamente il vasto assortimento della condizione nera, con élite, tensioni interne, un ceto medio, gli integrati e i marginali, declinati nei diversi territori dal sud alle regioni costiere, dalla provincia e dai villaggi ai maggiori centri urbani. Una realtà anti mitica priva di rappresentazione tant’è che manca il genere della commedia agra, diremmo all’italiana, che legge la società in chiave non retorica o buonista.

Detto in altro modo, non c’è nel firmamento delle stelle nere un emulo del nostro Alberto Sordi perché la comunità dei creativi hollywoodiani non comprende, se non rare e sparse, teste adatte a concepirlo. I rimedi proposti da McKinsey comprendono un bonus ai dirigenti a fronte del conseguimento di un tot assegnato di diversità razziale. Gli Stati Uniti possono sperare nel fiuto del mercato, tanto più che quello loro è talmente vasto da stimolare ogni esperimento.

Anche in Europa sussiste il problema di assimilare culturalmente e fare propria la diversità introdotta dall’immigrazione e dallo stesso prender forma di un’Europa federale. Ma l’adeguamento dei media a questa sfida passerà, come sempre e preliminarmente, attraverso il volontarismo dei servizi pubblici, che sono finanziati dal contribuente proprio per essere laboratori innovativi che provvedano a quanto non riuscirebbe ai troppo angusti mercati nazionali.

Al di là dei problemi e delle opportunità delle macchine creative hollywoodiane ed europee, la ricerca Mc Kinsey ha il merito di spezzare una lancia a favore della complessità contro l’idea di percorrere le vie sicure, la tradizione, il si fa così perché si sa che così funziona. Tutto sta a considerare la diversità, anche quando ancora sembra caos, come un campo di risorse e non solo fonte di problemi. ©riproduzione riservata

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