«Davanti alle bare bianche dei bambini affogati a Crotone si è sgretolato il racconto cattivista», scrive Flavia Perina sulla Stampa, «quello del disprezzo per i “finti profughi”. Il principio di umanità, per nostra fortuna, resta radicato nelle coscienze italiane. L’Italia non è disumana; davanti a morti innocenti, a morti evitabili, morti senza senso, la pietas e l’indignazione vincono su ogni appartenenza e costruzione ideologica». Non si potrebbe dire meglio.

La tragedia che sovrasta

Solo chi non conosce nel profondo la società italiana si può sorprendere: i bambini non si toccano e si salvano assieme alle loro madri. Il nostro retaggio cattolico e la nostra civiltà umanistica ce lo impongono. La vicepresidente della Comunità di sant’Egidio, Daniela Pompei, ideatrice dei corridoi umanitari, ha spiegato il perché di questi viaggi: le madri preoccupate per la fatica delle centinaia e migliaia di chilometri sulla via balcanica, preferiscono le barche. I bambini non possono sopportare tanta strada e le mamme vogliono portarseli tutti dietro.

Ecco la ragione di questi viaggi della speranza: nuclei familiari tutti assieme su una barca. Il dramma dei bambini profughi scuote nel profondo il nostro paese, com’è giusto che sia. Vediamo bambini travolti da un’immane tragedia, troppo grande per loro, che li sovrasta.

Un giudizio chiaro

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Tuttavia i bambini ci sorprendono perché hanno una loro idea chiara della guerra che vivono, sanno definirla e danno i loro giudizi. Questo emerge dalla mostra Facciamo pace?! La voce dei bambini sulla guerra che si svolge fino al 26 marzo al palazzo delle Esposizioni di Roma. È il risultato dei lavori, disegni, testi e istallazioni delle varie scuole della pace di sant’Egidio nel mondo, soprattutto dai paesi in guerra come l’Ucraina, il nord Mozambico, la Siria, la Repubblica Democratica del Congo o il Burkina Faso. 

Bisogna ascoltarli questi bambini che ci parlano e ci dicono la loro opinione sulla guerra che vivono. Poi c’è la “guerra alle spalle”: cioè la fuga, il mare spaventoso, la ricerca di una nuova casa. Ci sono anche le testimonianze dei bambini nei campi profughi della Grecia e del Libano e infine i disegni dei bambini appena atterrati a Roma con il ponte aereo da Kabul nella terribile estate del 2021. La mostra termina con la parte in cui i bambini dicono come si fa la pace secondo loro.

È importante ascoltarli perché hanno tanto da dire. Come ha detto Marco Impagliazzo presidente di sant’Egidio durante la presentazione della mostra assieme a Edith Bruck, Vincenzo Morgante direttore di Tv 2000 e Marco Delogu: «Guardando alla guerra con gli occhi dei bambini ne possiamo comprendere più radicalmente non solo la brutalità ma anche l’inutilità e l’ingranaggio perverso. La cosa che colpisce nei testi dei bambini è che non c’è l’odio per il nemico ma soprattutto per la guerra».La medesima cosa l’ha testimoniata Edith Bruck raccontando la propria esperienza dei lager nazisti. La guerra sconvolge tutto, uccide la famiglia, distrugge la casa, obbliga a lasciare il proprio paese.

Dolore senza retorica

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Nei testi dei bambini non si scorge nessuna retorica neanche sulla vittoria. Vediamo i disegni di Irpin e di Mariupol distrutte. «Il mio cuore piange e si spezza», scrive Danil di otto anni da Mariupol, «quando vedo cosa succede nella guerra». Dmytro di 13 anni di Kharkiv chiede: «Voglio che la guerra finisca ma non mi capirà mai nessuno, sono un bambino come tanti». Sonja di dieci anni aggiunge: «La guerra porta solo lacrime e tristezza».

Una descrizione della guerra come male, nessuno odio, nessuna accusa ma tanta paura e un’immane tristezza. Colpiscono anche i racconti e i disegni dei bambini in fuga, con la guerra che li insegue. Questi piccoli hanno visto cose terribili, stupri, massacri, la morte dei genitori, e hanno una consapevolezza: «La guerra è qualcosa da evitare nella vita», come dice Sadiki di 15 anni del Congo. Dopo l’orrore e la fuga, c’è il vuoto del campo profughi: «Giornate senza tempo, tutte uguali», descrive John da Cipro.

Il terrore dei profughi

Poi il terrore del mare in molti racconti. Zahar bambina afghana di nove anni spiega: «Se tutti sapessero il significato della pace, non vivremmo questa miseria oggi nel campo profughi». Ali di Homs di dieci anni narra il suo dolente pellegrinaggio: «Siamo sfollati di guerra: ci spostiamo da un paese all’altro ma non troviamo la pace». È una richiesta fatta alle nostre società perché le porte si aprano per questi piccoli in cerca di futuro. La parte finale su come fare la pace colpisce per la sua chiarezza. «La guerra», scrive Claudia di nove anni, «è come una casa senza pavimento»: ti manca il terreno sotto ai piedi e nulla è più sicuro. Matteo scrive: «Con la guerra il mondo sarà distrutto, i bambini non avranno futuro e si dimenticheranno come si gioca». Lapidaria la frase: «La guerra non porta a niente».

Grido per la pace

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C’è come una preghiera che sale dalle voci dei bambini verso gli adulti: fate la pace e fatela in fretta. Molti i consigli e le indicazioni –di fatto rivolte agli adulti – su come si fa la pace e non mancano piccoli che raccontano la propria esperienza del “fare pace”. I bambini vedono la guerra come un mostro che distrugge il loro mondo: intuiscono che il problema è la guerra in sé stessa.

È ciò che vediamo accadere in Siria, in Afghanistan, in Ucraina: la guerra fa il vuoto e uccide la terra. Tanti disegni anche terribili, come quelli in cui i bambini afghani descrivono gli aerei che partono da Kabul con le persone attaccate alle ali che cadono nel vuoto. Ma anche le tante gru di carta appese al soffitto di questa mostra che ricordano le 1000 gru fatte da Sadako, la bambina di Hiroshima, prima di morire di radiazioni: 1000 gru per un desiderio.

E il vocabolario di italiano da cui i bambini hanno cancellato la parola guerra e tutte le altre che secondo loro vanno eliminate. E infine l’albero della pace con le foglie verdi attaccate dei paesi in pace e quelle a terra cadute dei paesi in guerra. Un racconto che colpisce per la sua profondità e chiarezza. I bambini ci parlano: ascoltiamoli. 

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