Sono esattamente dieci anni dall’inizio della guerra di Siria, una delle più lunghe e letali del Medio Oriente. Un intero paese è stato stravolto, la sua composizione violentemente trasformata, il suo futuro incerto. La Siria contemporanea che abbiamo conosciuto non esiste più.

Al suo posto oggi c’è un paese martoriato, con una popolazione de facto dimezzata e con la presenza ormai definitiva di nuove genti, installatesi grazie alla guerra per aver ricevuto terre e case in cambio dell’appoggio militare offerto al regime di Assad.

Anche quest’ultimo è sfigurato, passando dall’essere una dittatura militare ideologica, laica e nazionalista, a divenire un sistema clanico etno-religioso stretto attorno ad un’unica famiglia ed ai suoi clienti.

Milioni di siriani hanno perso o stanno perdendo la propria cittadinanza, creando un popolo dolente di apolidi che il mondo non vuole ancora vedere. Il regime di Bashar al-Assad non desidera riammettere nessun sunnita (in origine oltre la metà della popolazione) che nel corso degli eventi bellici abbia lasciato il paese. Si calcola che sia il caso di almeno 6 milioni di cittadini, dei quali almeno 3 sono in Turchia mentre gli altri gravitano tra Libano, Giordania, Iraq ed Europa.

Dal momento che nessuno ha voglia o è in grado di spingere sui russi perché a loro volta convincano Assad ad accettare il rimpatrio dei rifugiati (con tutti i loro diritti connessi), c’è da aspettarsi il peggio. Malgrado la retorica degli inviti ufficiali al ritorno in patria, in realtà il regime sta frapponendo tanti e tali ostacoli a chi tenta di rientrare, che addirittura alcuni stanno già tornando sui loro passi.

Di conseguenza nel silenzio generale sta nascendo una nuova emergenza umanitaria globale, simile a quella che aveva colpito altri popoli nei due dopoguerra mondiali: una massa di rifugiati potenzialmente senza nazionalità.

Se non è permesso rientrare in possesso delle proprie case o proprietà, ormai soggette ad esproprio; se nemmeno –la cosa più assurda- è garantita la concessione dei documenti di identità, è evidente che milioni di siriani non potranno mai più rivedere il proprio paese. Da Damasco vengono trattati come traditori o complici dei traditori della patria: per loro ogni “perdono” è inammissibile.

Si tratta evidentemente di una scelta politica: il regime preferisce diminuire sostanzialmente il numero dei sunniti in favore di sciiti di ogni provenienza (Iran, Afghanistan, Pakistan ecc.), trattenendo soltanto la classe media sunnita che non l’ha mai abbandonato.

Sbarazzarsi di alcuni milioni di sunniti rurali e periferici, non solo i combattenti e le loro famiglie ma anche tutti coloro che sono sospettati di aver sostenuto direttamente o indirettamente il tentativo di rovesciare il regime, permette di ridisegnare la carta etno-religiosa del paese, omologandolo e rafforzando l’alleanza delle minoranze attorno al nucleo alauita.  Come in altre occasioni negli ultimi due secoli, la guerra in Medio Oriente si risolve provocando una pulizia etnica.

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