La storia breve è questa: il ddl Zan aveva i numeri per essere approvato al Senato e ora non li ha più, perché una delle forze che lo ha votato alla Camera, Italia viva, ha deciso di ritirare il suo appoggio.

La storia lunga richiederebbe di ricordare, per lo meno, che nel primo passaggio parlamentare fu lo stesso partito, con la deputata Lucia Annibali, a firmare l’emendamento che introduce all’articolo 1 le definizioni di “sesso”, “genere”, “orientamento sessuale” e “identità di genere”, come motivi di discriminazione e violenza. Proprio i termini che ora Renzi punta ad abolire per cercare un accordo ampio a destra.

Al di là delle ragioni recondite della mossa di Italia viva, su cui sono aperte le speculazioni, il punto politico che emerge con evidenza è l’intenzione di eliminare dal provvedimento il rimando alle dimensioni della personalità elencate all’articolo 1 come meritevoli di tutela da parte dell’ordinamento.

Solo così si può interpretare la proposta di sostituire ai termini contestati le parole “omofobia” e “transfobia”, che per la loro indeterminatezza portarono ad arenarsi provvedimenti analoghi in passato.

Si tratta, ancora una volta, di rallentare il processo di costruzione di quella che il sociologo Éric Fassin chiama «democrazia sessuale»: una società e un sistema politico in cui le norme relative al genere e alla sessualità – pensiamo solo al matrimonio, all’aborto o alla violenza contro le donne – siano oggetto di discorso pubblico, non traduzione di un presunto «ordine naturale».

Gli avversari di questo progetto sono noti. Non solo il Vaticano, la cui posizione contraria al ddl Zan ha pesato senza dubbio sull’irrigidimento delle posizioni contrarie e sulla retromarcia di Renzi, ma tutte le forze politiche che in Europa sono schierate a difesa della famiglia – s’intende, eterosessuale – come «unità fondamentale delle nostre nazioni».

L’abbiamo letto nella dichiarazione firmata pochi giorni fa dai leader di sedici partiti dell’ultradestra, tra cui Marine Le Pen, Viktor Orbán, Jaroslav Kaczynski, Matteo Salvini, Giorgia Meloni, Santiago Abascal di Vox.

Alleate nell’intento di respingere «l’iperattivismo moralista» dell’Unione europea, le destre utilizzano anche metodi simili in diversi paesi per tacciare di furore ideologico i promotori di riforme nel campo dei diritti.

Se la domanda di riconoscimento delle minoranze Lgbt è ridotta a “ideologia” – dove la parola stessa rimanda alla logica totalitaria di deduzione di conseguenze nefaste da premesse aprioristiche – l’opposizione a essa può presentarsi come “buonsenso”, ma anche come strategia anti-egemonica ed espressione di libertà. Nascondendo, così, il carattere ideologico dello stesso pensiero dominante sul genere e la sessualità che intende difendere.

Attraverso i conflitti sui diritti Lgbt passa oggi una frontiera politica che divide gli stati del mondo, nonché l’opinione pubblica e la politica al loro interno.

I partiti italiani che, guardando a paesi come l’Ungheria e la Polonia, vedono una minaccia, e non una promessa, devono decidere da che parte stare.

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