Molti influencer pubblicano di continuo le immagini dei figli sui social. Non serve descrivere il fenomeno, ormai è consolidato, ampiamente discusso e globale. Non lo fanno solo gli influencer, ma chi ha un vasto seguito fa più notizia e detta l’estetica del racconto, le tendenze narrative, il limite dell’accettabilità.

Ha colpito, per esempio, il video di Chiara Ferragni e del figlio ripreso dalle videocamere di sorveglianza di casa. Il bambino è nella sua cameretta, dice frasi dolci alla madre, è un momento intimo. La videocamera osserva tutto dall’alto, come un Grande Fratello. Il video viene pubblicato dalla madre su Instagram.

Fame di autobiografie

I rischi potenziali di questa esposizione dei figli sono vari, li sapete. Consegnare le immagini dei bambini alle reti di pedofili, danneggiare psicologicamente i figli a lungo termine. Le domande che sorgono riguardano la riservatezza (che è scomparsa da tempo), la sicurezza (una delle parole più ambigue e onnipresenti della nostra epoca, abbiamo paura di tutto, ma non abbiamo paura di mostrare tutto), e lo scalpore suscitato dal fatto che delle persone ignare (i piccoli) vengano esposte senza consapevolezza. Inoltre c’è qualcosa di ossessivo nella ricerca continua dell’immagine da condividere. Che vita ti resta da vivere, se abiti in un set televisivo permanente? Che vita imponi a chi ti circonda?

Uno dei motivi per cui questo fenomeno dilaga è la fame di contenuti autobiografici. La richiesta di autenticità. Questi contenuti funzionano, le persone li vogliono, il mercato fa il suo lavoro, ma non è solo mercato: sembra una necessità spirituale ineludibile, raccontarsi autenticamente e leggere racconti autentici.

Giusto? Sbagliato? La fame di autenticità riguarda vari àmbiti, non solo quello delle foto sui social: viviamo al tempo del racconto personale. Riferire il vissuto assume anche, talvolta, un valore politico: condividere la propria storia è considerata una forma di attivismo. Esporre la propria vulnerabilità. Esistono ormai persino i corsi di scrittura che spiegano come raccontare nel modo migliore la propria vulnerabilità.

Condividere la vulnerabilità

Naturalmente parlare di sé, delle proprie debolezze, non è equiparabile a mostrare le foto di figli minorenni. Se vuoi parlare solo di te, in fondo sono affari tuoi. Ma parlare di sé, anche, non è mai solo parlare di sé. Qualsiasi autobiografia coinvolge sempre altre persone, persino quelle non nominate. Abbiamo una madre, un padre, dei fratelli, un compagno, degli amici cari.

La nostra sofferenza raccontata si riflette su di loro, sulla loro presenza nella nostra vita, o sulle assenze. Sulle cause del dolore che implicitamente suggeriamo. La testimonianza pubblica di una madre con la depressione post partum, per esempio, è qualcosa che resta e che un giorno i figli leggeranno e dovranno affrontare.

Se condividere al solo scopo di vendere prodotti appare disdicevole, condividere la vulnerabilità (facendo sentire meno solo chi soffre come noi) sembra una scelta moralmente più bilanciata. Ma fino a che punto il valore morale di una condivisione giustifica le inevitabili ricadute su altre persone? «È difficile parlare di sé» (frase ginzburghiana), e lo è ancora di più quando riflettiamo sul fatto che parlare di sé significa potenzialmente travolgere chi ci vive accanto.

Desideri di racconto

Sono una scrittrice, non ho mai scritto un romanzo autobiografico. Non so se in futuro scriverò un libro in cui parlerò di “Letizia Pezzali” e delle persone che mi circondano. Non lo posso escludere, anche se non mi sembra interessante, ma so che potrei cambiare idea.

Sono sicura che le persone che mi circondano detesterebbero l’iniziativa. Tuttavia una scrittrice non deve dare peso a questo tipo di questione morale, e cioè deve rischiare di essere immorale. Philip Roth disse a Ian McEwan che bisogna scrivere come se i nostri genitori fossero morti. (McEwan disse che questo è il suggerimento migliore che ha ricevuto nella vita).

Ho scritto talvolta sui giornali citando frammenti di vita vissuta, ho parlato in questa rubrica dei miei bambini e di aneddoti legati alla genitorialità. Non posso sapere cosa penseranno i miei figli, da grandi, delle parole che ho scritto, per quanto benintenzionate mi possano sembrare. A mia figlia più grande comunico sempre se scriverò qualcosa che la riguarda, e di cosa si tratta, ma lei ha spesso molti dubbi sul modo in cui gli adulti rappresentano i bambini: le sembrano superficiali. Qual è per esempio il rapporto fra quello che mia figlia considera accettabile e le mie necessità e i miei desideri di racconto?

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