Corrado Augias, Sergio Cofferati e Giovanna Melandri hanno restituito la Legion d’onore alla Francia per protestare contro il conferimento di quella stessa onorificenza, condivisa con 130mila legionari, al presidente egiziano al Sisi, in segno di solidarietà alla famiglia di Giulio Regeni.

Emma Bonino non ha fatto lo stesso passo: ma ha scritto una lettera a Emmanuel Macron domandando di revocare quella decorazione a nome del paese che ha visto calpestati i diritti di quel suo connazionale torturato a morte e dei «mille Regeni» spariti nelle prigioni egiziane.

Le intenzioni e gli argomenti di questi e forse di altri legionari dimissionari sono assolutamente nobili. A patto di sottolineare che quelle intenzioni e quegli argomenti non mettono alcuna pressione sul rais egiziano, ma su Macron e sulla Francia, paese le cui norme ritengono le «visite di stato [...] l’occasione d’attribuzione a personalità ufficiali, fatta a titolo di reciprocità diplomatica» della Legion d’onore.

Legionari impresentabili

In applicazione di questo protocollo nell’albo dei “legionari” stranieri, da Napoleone in qua, figurano persone che non è facile annoverare fra i paladini dei diritti dell’uomo: Franco, Ceausescu, Gheddafi, Putin, Ali Bongo, Mohammed ben Nayef erano nell’elenco e la loro presenza non era stata ritenuta da chi aveva accettato quella distinzione fonte di imbarazzo.

Fu proprio la Francia, semmai, a porsi il problema dopo che il dittatore Noriega, insignito da Mitterand nel 1987, finì in un un carcere francese: e si stabilì il principio della revoca della distinzione agli stranieri tenuti a scontare una pena detentiva.

La “giurisprudenza Noriega” su estesa proprio da Macron, che nel 2016 avviò il ritiro della Legion d’onore  a Bashar al Assad (procedura nel frattempo usata contro il ciclista Armstrong per doping, contro Weinstein per pedofilia e contro Galliano per antisemitismo) ed è quella che non i dimissionari, ma Emma Bonino domanda venga usata contro al Sisi.

È difficile credere che le dimissioni o le proteste di “legionari” italiani possa ottenere la revoca di un’onorificenza che ha avuto echi negativi anche a Parigi e possa convincere i paesi che conoscono mandanti, complici ed esecutori del delitto Regeni a consegnarli: perché l’accoglienza di al Sisi, con tutte le implicazioni protocollari che si sono dispiegate senza troppa pompa, non sono è la causa, ma l’effetto di una politica nell’area.

Non è una patente di moralità

Tuttavia questo passo italiano pone un problema più sottile, ma non banale, che che riguarda proprio la natura delle onorificenze di stato, e che include anche l’Italia.  Perché anche la prassi del nostro stato – nel regno e nella repubblica che riporta tutte le onorificenze in una unica lista sul sito del Quirinale – è segnata da decisioni prese per consolidare un legame diplomatico fra paesi, non per dare una patente di moralità a un singolo.

Ci sono infatti nell’elenco di coloro che hanno ricevuto i più alti riconoscimenti italiani figure di eroi, combattenti, futuri papi: ma anche figure politiche premiate senza che questo ne assolvesse le colpe storiche e senza che questo provocasse gesti plaetali in patria e fuori. Qualche caso?

Nel 1999 la repubblica conferì le insegne di Cavaliere di Gran Croce Ordine al Merito della Repubblica Italiana a Yasser Arafat, leader di una forza politico-militare che in Italia aveva promosso o coperto azioni sanguinose: ma nessuno dall’estero – e nemmeno rav Elio Toaff, dall’Italia – restituì all’Italia le proprie insegne per sanzionare il fatto che per onorare il suo impegno nel processo di pace fra israeliani e palestinesi, era stato dimenticato il suo passato guerrigliero.

Qualcosa di simile vale per Henry Kissinger, segretario di Stato della più grande democrazia al mondo che però non aveva esitato a sostenere il golpe cileno di cui erano state vittime anche nostri connazionali: anche nel suo caso l’impegno diplomatico per la pace in Vietnam rendeva potabile un riconoscimento che non causò restituzioni delle insegne da parte di cavalieri, commendatori e decorati nostri o di paesi vittime delle politiche repressive sull’America Latina che discendevano dalla sua “dottrina”.

Si potrebbe ricordare il cavalierato dato nel 1953 ad Anastasio Somoza, il sanguinario dittatore del Nicaragua, e i riconoscimenti che per una dovuta cortesia vengono conferiti ai diplomatici di regimi schiettamente non democratici.

Anche Mussolini

Si potrebbe andare avanti e indietro sulla linea del tempo, per contemplare la contraddizione fra l’esigenza di tenere buoni rapporti fra stati e il dovere di difendere principi irrinunciabili: contraddizione che si trova scritta negli elenchi della Legion d’onore alla voce Benito Mussolini: a lui nessuno ha mai tolto il suo titolo – nemmeno nel sito del Quirinale – di Cavaliere di Gran Croce dell’Ordine Militare d'Italia ottenuto il 7 maggio del 1936, al termine della spietata guerra d’Africa e cui la Francia non revocò le insegne di legionario nemmeno dopo la aggressione bellica del 1940...

Se dunque merita rispetto chi fa advocay internazionale di cause nobilissime con le decorazioni – quelle restituite, quelle negate e soprattutto quelle date, come dimostra l’oculatezza con cui il Quirinale orienta le sue – val forse la pena di ricordare che un grande paese fa sentire con la stessa forza il pragmatismo degli interessi nazionali e l’intransigenza dei propri interessi morali con la diplomazia, pura e semplice.

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