È diventato tutto normale. Lo certificano l’indifferenza e il silenzio che hanno accolto l’inchiesta di Emiliano Fittipaldi e Giovanni Tizian sulle attività di Matteo Renzi che, da senatore in carica e in campagna elettorale, continua a collaborare con il principe saudita Mohammed bin Salman.

La visita di bin Salman in Grecia, il 26 luglio, era nota, ma la presenza di Renzi no. Il leader di Italia viva, che pure informa spesso i suoi follower di viaggi, incontri ed eventi, non ha ritenuto di darne notizia, segno che lui stesso ci vedeva qualche profilo di criticità.
Ma dopo che Domani ha rivelato, oltre un anno fa, le connessioni saudite, Renzi ha continuato a lavorare come se niente fosse per bin Salman.
Si muove su un confine sottile: la legge glielo consente, come ha riconosciuto anche il suo compagno di coalizione Carlo Calenda, che disapprova ma in nome del quieto vivere non condanna. Visto che non è illegale, allora va bene così.

La prima pietra

In altre fasi della politica italiana era lecito e perfino auspicato che i candidati venissero valutati anche con metri diversi dal casellario giudiziale.

Non tutti gli indagati sono moralmente indegni di sedere nel parlamento (vedi Marco Cappato con la sua disobbedienza civile) e non tutti gli incensurati o assolti sono meritevoli.

Il problema è sempre quello della prima pietra. Nessuno la scaglia perché sa che gli altri hanno le tasche pieni di sassi con cui rispondere: il Pd candida indagati, ex ministri responsabili dei regali alle autostrade dei Benetton, ha in coalizione Bruno Tabacci che ha rinunciato alle deleghe sull’aerospazio perché la principale azienda dell’aerospazio (Leonardo) aveva appena assunto suo figlio e così via.

Il “nuovo” che avanza

Il nuovo che avanza, cioè Giorgia Meloni, certo non osa porre questioni morali: l’indagine che a luglio ha coinvolto l’europarlamentare di Fratelli d’Italia ed ex portavoce di Meloni, Nicola Procaccini, è solo l’ultima di una lista infinita di scandali all’interno del partito che molti italiani voteranno perché “nuovo” e “diverso”.

Il fatto poi che quel partito sia rappresentato in televisione da un lobbista privo di incarichi di partito, Guido Crosetto, offre altri indizi sulla scarsa sensibilità ai conflitti di interessi. Così come la candidatura dell’eterno Giulio Tremonti, che con il suo studio lavora con Cassa depositi e prestiti e mille altre aziende che saranno influenzate dall’attività del parlamento e dal possibile governo di centrodestra.

Una volta c’erano i Cinque stelle a gridare “onestà, onestà”, ma ora sono guidati da Giuseppe Conte che, da premier in carica, continuava a incassare parcelle dagli incarichi precedenti e cercava di vincere concorsi universitari. Per non parlare del suo ex socio, Luca Di Donna, indagato per traffico di influenze illecite.

Nessun reato o scorrettezza da parte di Conte, intendiamoci, ma neppure lui ha interesse a denunciare malcostume e cinismo imprenditoriale come quelli di Renzi.

Sul fronte leghista figuriamoci: i commercialisti del partito di Matteo Salvini condannati per le operazioni sui fondi della Lega, il tesoriere condannato per finanziamento illecito, il leader che si incontra di nascosto con i diplomatici russi, mentre i suoi collaboratori sono al centro di una indagine per la famosa, possibile, tangente, poi sfumata, discussa all’hotel Metropol di Mosca nel 2018.
Forse per la prima volta dal parlamento pre Mani pulite, ogni questione morale è stata cancellata dalla campagna elettorale, tutti i partiti competono in un’arena dove il cinismo è codificato nelle regole della gara. Nessuno osa più metterle in discussione.
E questo, è lecito pensare, contribuisce a spiegare l’astensionismo che cresce.

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