Tra le soluzioni semplici a problemi complessi un nuovo personaggio si è rapidamente guadagnato il ruolo di protagonista: il reddito di cittadinanza. Complice una retorica eccessiva e taumaturgica (l’abolizione della povertà) che ha accompagnato la sua approvazione e un impianto che unisce in uno strumento unico troppe funzioni diverse, negli ultimi anni ogni volta che emerge con forza qualche distonia nel mercato del lavoro si tende a individuarlo come origine di ogni male.

Come se il disallineamento tra domanda e offerta di lavoro non fosse un fenomeno vecchio, purtroppo, e come se i beneficiari del reddito di cittadinanza comprendessero tutti i disoccupati. Non si vogliono certo negare i gravi e numerosi limiti dello strumento, che meriterebbe una revisione complessiva per garantire sia una miglior copertura della platea (a partire dal nodo degli stranieri), sia una riduzione delle sue funzioni a vantaggio di un nuovo e complessivo sistema delle politiche attive del lavoro e tanto altro.

Ma pensare che nel reddito stiano la maggior parte dei problemi di mancato incontro tra domanda e offerta, e conseguentemente immaginare che molti di questi si risolvano con interventi tecnici sul suo funzionamento in relazione al rapporto tra reddito e offerte di lavoro, significa avere una visione limitata.

I beneficiari

Il primo elemento sta nella composizione della platea dei beneficiari del reddito. Considerando le caratteristiche personali dei percettori, si scopre che su 100 solo 19 sono persone «teoricamente occupabili», ossia senza lavoro, che hanno avuto esperienze di lavoro negli ultimi anni e quindi possono ragionevolmente rispondere a offerte di lavoro congrue.

Venticinque sono invece occupabili ma hanno avuto l’ultimo lavoro prima del 2017, 15 non hanno mai lavorato e i restanti sono minorenni, pensionati, disabili o troppo anziani. Complessivamente, i beneficiari che potrebbero facilmente essere adatti a rispondere positivamente a una offerta di lavoro, sarebbero poche centinaia di migliaia.

A questo si aggiunge che il tema del disallineamento tra domanda e offerta di lavoro si inserisce all’interno di almeno altri due complessi fenomeni. Da un lato una dinamica demografica che negli ultimi decenni ha eroso le coorti anagrafiche più giovani a causa della denatalità, facendo sì che il numero di giovani diminuisse molto (un milione in meno tra i 25 e i 34 anni tra il 2010 e il 2020), proprio quei giovani protagonisti del mondo del lavoro stagionale di cui tanto si parla.

Il secondo fenomeno, amplificatosi dopo il Covid ma già latente prima, riguarda le aspirazioni proprio delle fasce più giovani che, più competenti del passato, hanno spesso una preferenza avversa al lavoro manuale, sono molto interessati a salvaguardare una dimensione di equilibrio tra lavoro e vita personale e hanno una maggior coscienza dei loro diritti e delle condizioni lavorative.

Scarsità di persone

Ci troviamo quindi in un contesto nel quale vi è (e ci sarà sempre di più) scarsità di persone più che di personale, e le persone che ci sono in parte non vogliono svolgere i lavori che il mercato offre. All’interno di tutto ciò è chiaro che si inseriscono comportamenti opportunistici e di illegalità, a partire da chi preferisce svolgere un lavoro nero, accettando anche di essere pagato meno di quello che i contratti prevederebbero, pur di mantenere il reddito di cittadinanza.

Ma i dati che abbiamo mostrato sembrano suggerire che si tratti di un fenomeno molto meno diffuso di quanto viene raccontato. Per questo anche le ultime novità che sembrano affacciarsi in materia, che prevedono che le imprese possano direttamente segnalare ai centri per l’impiego il rifiuto da parte di un percettore di una offerta congrua, oltre ad assegnare alle aziende un ruolo che forse non vogliono prendersi, vanno comunque a rivolgersi a una fascia molto ristretta dei beneficiari, che probabilmente è in grado di evitare comunque un lavoro da loro non desiderato.

Perché dovremmo aver ormai capito negli anni che il mercato del lavoro non funziona solo a incentivi economici o normativi e che quindi il principio della condizionalità (il sussidio solo se ti impegni a cercare un lavoro) è una astratta teoria fino a quando non si sposa sulle concrete esigenze e aspirazioni di chi è senza lavoro e rischia di apparire come un sistema sanzionatorio unicamente punitivo che scoraggia ancor di più a stare alle regole del gioco.

E in un contesto nel quale, che ci piaccia o no, il lavoro (o meglio un certo modo di intendere il lavoro come sacrificio e riscatto) non raccoglie più gli interessi e le preferenze di un tempo, occorre cambiare strategia. L’unico modo per cui questi cambiamenti non si traducono in un rifiuto tout court del lavoro è ripensarlo. E qui la sfida è nelle mani del tessuto imprenditoriale, della rappresentanza dei lavoratori e della politica industriale che deve contribuire a creare le condizioni per lavori più qualificanti e umanizzanti. Non si tratta di farlo solo per il bene dei lavoratori, ma per far sì che un sistema nel quale questi mancano sempre di più possa riprendersi, ripensandosi.  

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