I partiti che hanno tenuto Mario Draghi alla presidenza del Consiglio, invece che mandarlo al Quirinale, per fare le riforme hanno poi confermato i peggiori sospetti. Cioè che non sono affatto interessati all’efficacia dell’azione di questo governo, bensì a preparare le prossime elezioni del 2023.

Visto che stanno tutti in maggioranza, tranne Fratelli d’Italia, hanno un solo modo per stare sui giornali, in tv e marcare le differenze difficili da notare in un momento in cui governano tutti insieme: sabotare, ciascuno con la propria agenda, l’azione di quel governo.

I partiti rischiano così di mettere in crisi il “metodo Draghi” o comunque di renderlo inefficace. Il premier, con la sua squadra di collaboratori più stretti, ha scelto un approccio alle riforme diverso da quello di Mario Monti nel 2011.

Dieci anni fa, l’altro Mario, sotto la pressione dei mercati finanziari e della recessione, aveva costretto i partiti a votare misure impopolari in una logica di pacchetto. Pochi, grandi provvedimenti che contenevano riforme, tagli. Prendere o lasciare.

Nel decennio successivo, i partiti hanno smantellato quelle riforme, manca giusto il referendum sulla legge Severino (ma gli italiani andranno in massa alle urne per tenere in parlamento i politici condannati?).

Senza il vincolo esterno dello spread,  Draghi sa che riforme imposte a forza a questo parlamento verrebbero percepite come effimere, destinate a essere smontate nella nuova legislatura prima di produrre effetti.

Per questo il premier prova prima a far emergere i problemi fino a rendere consensuale perché necessaria la soluzione, magari spiacevole, ma necessaria a correggere uno squilibrio inaccettabile. E’ il metodo seguito con le concessioni balneari, con il fisco (prima la revisione del catasto poi, forse, quella delle aliquote), con l’energia.

Se le riforme partono un po’ annacquate, possono poi finire per risultare omeopatiche. A parte la riforma della giustizia, non c’è ancora alcun provvedimento simbolo di questa stagione, moltissimi cantieri aperti, tanto pragmatismo, ma poco di concluso.

I partiti ora sembrano pensare a farsi notare per emendamenti polemici più che a ottenere risultati.  

Nonostante la sua reputazione di algido decisionista, insomma, Draghi tratta i leader di partito e i parlamentari come interlocutori con cui cercare soluzioni condivise, senza paternalismi. Forse non c’è alternativa, ma è un bel rischio dal ritorno incerto.  

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