Venerdì scorso il garante della privacy Pasquale Stanzione. nella sua relazione annuale, ha ricordato che con i social network è in gioco la democrazia. «La sospensione degli account Facebook e Twitter di Donald Trump ha rappresentato plasticamente come le scelte di un soggetto privato, quale il gestore di un social network, possano decidere le sorti del dibattito pubblico, limitando a propria discrezione il perimetro delle esternazioni persino di un capo di stato».

Facebook e Twitter hanno espulso Trump, impedendogli di rivolgersi ai cittadini americani sui loro canali, mentre il controverso personaggio era ancora presidente in carica degli Stati Uniti, con tanto di valigetta atomica. Ne è nato un dibattito inquinato dalla simpatia o antipatia per il protagonista o riservato alla cerchia degli esperti. Manca tra i cittadini la consapevolezza della posta in gioco.

Sentiamo ancora Stanzione: «Il Tribunale di Roma ha rilevato come il pur ordinario contratto privatistico di fornitura del servizio di social network soggiaccia a una peculiare forma di eteroregolazione dovuta alla sua incidenza su diritti fondamentali».

Detto in parole più semplici: un supermercato è un’azienda privata che tratta privatisticamente con i suoi clienti, però la legge gli vieta di decidere arbitrariamente chi può entrare e chi no a fare la spesa. Facebook e Twitter invece possono scegliersi gli utenti. Come se una concessionaria autostradale ammettesse alla sua rete solo gli automobilisti che, a suo insindacabile parere, guidano bene.

Ci sono un fatto fondamentale e due problemi. Il fatto è che i social network per loro natura, come tutti servizi a rete, tendono al monopolio. Scelgo la carta di credito tra quelle accettate in più negozi, mentre i negozi si associano alle carte di credito più diffuse. Tutti stanno su Facebook perché sanno di trovarci tutti. I politici usano Facebook per la loro propaganda perché è il canale più efficiente. Questo fa dei social network un servizio pubblico essenziale, sia pure gestito da privati, come i telefoni.

E dev’essere aperto a tutti, visto che, nella realtà storica concreta, è il principale canale della libertà di espressione garantita dall’articolo 21 della Costituzione. Primo problema: l’algoritmo di Facebook decide quali notizie farmi vedere, tra i milioni di post di ogni giorno. Stanzione parla di un «potere pervasivo di condizionamento (...) fondato su tecniche psicometriche, volto a potenziarne la capacità persuasiva adattando il messaggio alle preferenze e alle inclinazioni desunte dalla profilazione algoritmica».

Il secondo problema è ancora più evidente. Se scrivo in un post che il tale politico è un ladro commetto un reato e ne rispondo in tribunale. Se scrivo che «bisogna vietare ai barconi dei migranti di attraccare», la cosa somiglia più a una odiosa idiozia che a un’opinione, ma non è vietata dalla legge. Però non so se è conforme ai fumosi “standard della community” e potrei trovarmi sospeso dalla piattaforma e, in caso di recidiva, espulso, sulla base di decisioni non motivate di una società privata. Essa si assume impropriamente, come rileva Stanzione, «un ruolo arbitrale rispetto alle libertà fondamentali e al loro bilanciamento, da riservare pur sempre all’autorità pubblica». Insomma, una società privata ha il potere di negare a qualunque cittadino (o leader politico) la libertà di partecipare alla vita pubblica. Abbiamo un problema con la democrazia e non se ne può parlare solo nei convegni tra gli “esperti di internet”.

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