Il 14 agosto 2018, quando il ponte Morandi è crollato uccidendo 43 persone, ci siamo chiesti come era stato possibile. Tre anni dopo è giunto il momento di chiederci che cosa abbiamo imparato da quella tragica vicenda. La risposta è: poco. Per la semplice ragione che non abbiamo ancora dato una soluzione sensata alla prima domanda. Un senso comune ampiamente condiviso individua come colpevoli la famiglia Benetton e il loro fidato manager Giovanni Castellucci, accusati di aver risparmiato sistematicamente sulle manutenzioni per aumentare i profitti. Analisi sacrosanta, ma non basta.

Un disastro simile non lo fanno una o due persone da sole. Il 25 giugno scorso la procura di Genova ha chiesto il rinvio a giudizio di 69 persone. Qui non interessa la verità processuale ma quella storica. Siccome è una partita di importanza capitale per capire dove sta andando la nostra società, sarà dovere degli storici scavare negli atti processuali per capire come hanno potuto fare, tutti insieme, un simile capolavoro.

Venticinque anni fa lo storico americano Daniel Goldhagen, figlio di un sopravvissuto all'Olocausto, pubblicò un libro istruttivo già dal titolo: I volenterosi carnefici di Hitler. Il dittatore non avrebbe potuto far fuori 6 milioni di ebrei da solo eppure non avrebbe senso incolpare genericamente il popolo tedesco. Goldhagen ha indagato cultura e biografia di chi aveva materialmente contribuito alla Shoah, chiamando in causa responsabilità personali che non si possono liquidare con la classica formula di Norimberga, «ho obbedito agli ordini».

Il Morandi non lo hanno fatto crollare gli italiani. Le decine di ingegneri e dirigenti che hanno preparato la tragedia di Genova sono immersi in una cultura che legittima silenzi, complicità e vigliaccheria. Come i volenterosi carnefici di Hitler non erano obbedienti perché impauriti ma adulti schiettamente antisemiti, così i caporali della società Autostrade hanno ritenuto che quella silenziosa obbedienza, con cui conquistavano tenore di vita e buoni studi per i loro figli, fosse legittimata non solo dalla paura di perdere i privilegi ma anche dall'etica dominante. Quella per cui la ricerca del profitto è il motore indiscutibile del benessere generale e ha diritto di sacrificare vite e destini.

Del dominio di questa etica e dei suoi effetti siamo tutti responsabili. Il 14 agosto 2018 Castellucci era già sotto processo ad Avellino, per la morte di 40 persone precipitate su un autobus dal viadotto Acqualonga, ma la notizia era ignota perché mai data dalla grande stampa nazionale.

Informare sugli eccessi, quand'anche criminali, della corsa al profitto è considerato un atto di maleducazione se non addirittura eversivo.

La tragedia del Morandi non ci ha insegnato niente, si continua a morire in fabbriche dove si risparmia sulla sicurezza per consentire al padrone di cambiare l'auto o la barca, a seconda dei fatturati. E si fa finta di non capire che su questa china il sistema capitalista si sta suicidando. Altro che Covid.

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