È la politica a decidere come, dove e perché deve nascere un’avanguardia artistica e culturale? Ursula von der Leyen, che a parole fa del Green deal la sua priorità da quando si è insediata, ora lancia un “Bauhaus” dedicato alla transizione verde. La notizia rimbalza senza ombra di critiche: il richiamo al Bauhaus è abbagliante. La presidente tedesca della commissione Ue fa riferimento all’esperienza artistica nata nel suo paese un secolo fa e chiusa dal regime nazista. Quel Bauhaus, con le tre scuole che attirarono artisti come Klee e Kandindskij, professava la Gesamtkunstwerk, l’arte totale. In quel “totale” c’era l’idea di un’arte interdisciplinare che doveva investire ogni ambito dell’esistenza, anche quella più routinaria: la creatività artistica dialogava con artigianato, design, architettura, tecnologia, macchina e industria; il valore estetico andava incontro alla funzionalità. Era “totale” perché entrava nella società, anche dentro le case del proletariato industriale. «Lasciate che insieme, senza distinzioni di classe tra artisti e artigiani, progettiamo la nuova costruzione del futuro che un giorno sarà nelle mani di milioni di lavoratori», scriveva nel manifesto il primo direttore del Bauhaus, Walter Gropius. Oggi la presidente dice che il futuro da costruire è verde e la quotidianità va ripensata, riabitata di oggetti e pratiche sostenibili. Ma da qui si spinge fino a entrare nel dominio dell’arte e allude in modo esplicito al Bauhaus del 1919: «Voglio conciliare estetica e praticità», dice. Una estetica sì, ma orientata alla produzione (green). Cosa sarà concretamente il “nuovo Bauhaus europeo”? «Uno spazio di confronto, un laboratorio, un “acceleratore” di cambiamento». Coinvolgerà «artisti, architetti, designer, scienziati, ingegneri, studenti». È tutto ancora vago ma c’è comunque un calendario (vago pure quello): dal 2021 cinque progetti che tengano insieme sostenibilità, arte e cultura, focalizzati su efficientamento energetico, materiali da costruzione ecocompatibili, verde e digitale; dal 2023 un’altra tranche su big data e intelligenza artificiale. Von der Leyen vuol costruire una «estetica del Green deal», entrare «nelle menti delle persone» e creare (per via politica e istituzionale) un «movimento, lo European Bauhaus movement». Qui però il paragone con il Bauhaus delle origini si inceppa: quello non fu certo un movimento artistico impiantato dalla politica, anzi si scontrò con essa, ne uscì stritolato. Quel Bauhaus si proponeva di riformare la società, e quell’arte aveva valenza politica, ma altra cosa è invertire il processo: far dettare alla politica l’arte e i suoi obiettivi. Spetta a von der Leyen pianificare la bellezza, definire l’estetica, dare forma a un movimento? Un mese fa ha detto di voler ridurre le emissioni del 55 per cento entro il 2030; il parlamento Ue chiedeva il 60, gli ambientalisti sono delusi. Forse, prima di quelli artistici, dovrà occuparsi di altri movimenti: invertire la rotta dei disastri climatici. Riformare, prima che l’estetica, i rapporti di potere.

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