Ha ragione Claudio Cerasa nel suo articolo di lunedì sul Foglio: di fronte all’autunno che avanza, brumoso meteorologicamente e plumbeo politicamente, anch’io ho bisogno di essere coccolato.

Non dal Pd, come mi augura Cerasa, ma piuttosto da un piatto fumante di tortellini. Perché difficilmente il Pd può coccolare qualcuno in preda com’è ad una crisi di nervi.

Del resto non è una novità per i leader di quel partito, con la sola eccezione di chi li ha portati alla vittoria, Romano Prodi, uno che invece li ha sempre tenuti ben saldi.

La lista è lunga: da Massimo D’Alema dimissionario per aver perso le elezioni regionali del 2000  – mentre Silvio Berlusconi sconfitto disastrosamente nel 2005, tanto da rimanere solo con il lombardo-veneto, era rimasto in sella – a Walter Veltroni che abbandona per aver perso la Sardegna (sic), per finire a Nicola Zingaretti uscito sbattendo la porta contro le correnti interne fino a vergognarsi del proprio partito (ma un po’ di coerenza avrebbe richiesto una contemporanea uscita dal Pd con relativo abbandono delle cariche).

Anche Pierluigi Bersani non ha superato il trauma dei 110 franchi tiratori contro Romano Prodi, ma se avesse mantenuto la candidatura di Franco Marini, che al secondo turno aveva la maggioranza assoluta (521 voti)  nonostante la defezione dei renziani e di altri, al quarto turno sarebbe stato tranquillamente eletto.

Ma ci volevano nervi saldi e capacità di resistenza alla canea mediatica che invocava un presidente subito, immemore delle 21 votazioni per arrivare a Sandro Pertini.

 Aver confermato i voti del 2018 con un leggerissimo incremento non basta però a salvare il Pd dalle critiche. Ma sembra di sentire il vecchio Gino Bartali: è tutto da rifare.

Perché, come sostiene Cerasa, inutile guardare al bicchiere mezzo pieno se in realtà è bucato.

Il bicchiere mezzo pieno

A parte un piccolo problema di idraulica (se è bucato, come fa ad essere ancora mezzo pieno?) le ragioni per cui il bicchiere del Pd è mezzo pieno sono molte.

Intanto è il partito con il maggior numero di iscritti e di sedi e con il maggior numero di eletti locali; tra l’altro ha espresso o sostenuto i sindaci di tutte le metropoli italiane, con la sola esclusione di Genova e Palermo.

Inoltre, esprime, pur con contraddizioni e contorsioni, una linea (pallidamente) socialdemocratica alla cui famiglia politica si è finalmente aggregato (uno dei pochi meriti della segreteria Renzi).

Infine dispone ancora di una classe politica con esperienza e provate capacità amministrative, da nord a sud, cosa che altri partiti nemmeno si sognano.

Il suo problema, allora, più che di identità, a meno di un sussulto identitario dei vecchi post-democristiani che non vogliono morire socialisti, come diceva Matteo Richetti (oggi in Azione, unico ad opporsi alla adesione al Pse, all’epoca) sta nel fornire contenuti mobilitanti o appealing ad una impostazione generale di taglio socialdemocratico.

Piuttosto che la fantasiosa linea Sanders/Ocasio-Cortez a cui fa riferimento Cerasa, credo che il Pd debba seguire quella di Fabrizio Barca e Salvatore Biasco (della cui improvvisa scomparsa siamo tutti orfani).

Intellettuali che da anni sollecitano la sinistra e il Pd in primis a muoversi con coerenza e radicalità lungo la via della lotta alle diseguaglianze.

Perché, come ricordava Norberto Bobbio, la sinistra è tale se mira ad ampliare lo spazio dell’eguaglianza, su ogni piano.  Altrimenti meglio lasciare spazio ad altri, a destra come a sinistra.

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