Chi ha iniziato ad affacciarsi al mondo nei primi anni Duemila lo ricorda bene, quando Libero De Rienzo è esploso con il film culto Santa Maradona era il 2001 e aveva ventiquattro anni. In seguito, sempre oscillando tra la commedia e il dramma e mescolandone le carte con le sue interpretazioni, il filo conduttore delle sue scelte di attore sarebbe sempre rimasto cristallino.

Se interpretando Bart ci mostrava dei ventenni maestri di sarcasmo e salti mortali carpiati tra coinquilini e prospettive lavorative incerte (in un’epoca in cui la crisi economica non era ancora emersa ma con ogni evidenza già si presagiva), in Smetto quando voglio e nei suoi sequel abbiamo avuto l’impressione che personaggi analoghi avessero dieci o quindici anni in più, sempre meno lavoro e problemi sempre più gravi.

Sapere poco di chi vive di spettacolo è difficile, questi sono i nostri anni, questa è la nostra acqua. A Libero De Rienzo però forse piacevano le cose difficili, e di lui si conosceva solo l’essenziale. È andato via lasciando poche interviste circoscritte all’ambito lavorativo, attività social scarne corredate da immagini slegate dal proprio volto e dall’autopromozione.

È andato via troppo presto e ha lasciato il nucleo duro dell’unica cosa che conta per chi non fa parte degli affetti privati. Le pellicole girate, l’esercizio fisico di attore inciso nella nostra parvenza di eternità, riproducibile per chi lo ha amato e per chi ancora non lo conosce.

Come è giusto che sia Santa Maradona è universalmente citato, ma ricordiamo anche Miele, A tor bella monaca non piove mai, Fortuna. Ricordiamo Fortapàsc di Mario Risi che nel 2009 rese omaggio con un’interpretazione indimenticabile al giornalista Giancarlo Siani, ucciso dalla Camorra a soli ventisei anni. Ricordiamo che evitando sempre poverismi e retorica De Rienzo ha partecipato a film in cui vengono narrati quel particolare tipo di ultimi che alla domanda “Come vuoi svoltare?” rispondono “Non lo so, faccio un magheggio, faccio un impiccio”, e già sai che non potrà funzionare, che finirà male come sa finire male per i buoni e i non furbi.

Ogni volta che lo rivedremo pensiamo che quando si dice che un volto di attore è autentico dovrebbero venirci le bolle come quando si dice che un libro è necessario, e infatti il suo non era un volto autentico, era un volto pazzescamente verosimile, aderente al contesto in cui di volta in volta si calava.

Per chi è stato, è e sarà spettatore restano i pezzi sparsi che sempre ci vengono regalati da chi si è esposto come artista, quando in Santa Maradona ha rifiutato di indossare la maglietta della Juve, quando sul palco dei David di Donatello si è pulito la faccia con la manica della giacca («La sregolatezza pura che non ha a che fare col genio mi esalta» avrebbe detto Bart).

Era davvero troppo presto ma è rimasto molto, abbiamo potuto percepire la malinconia dei suoi personaggi anche più divertenti e l’allegria che puoi mettere nel più grande dei drammi. A suo tempo ce lo aveva spiegato Safran Foer in Ogni cosa è illuminata – ed ecco Bart che subito torna a obiettare che Ogni cosa è illuminata «è un best seller e qui best seller non ne abbiamo, abbiamo solo libri di qualità, è chiaro?» -, che il buffo è uno dei pochi modi per raccontare la tragedia. Adesso, però, il buffo non lo sappiamo proprio trovare.

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