L’ora attesa della politica francese è, dunque, scattata. Tutto fa pensare che l’11 novembre Eric Zemmour, discusso intellettuale, per anni anchorman di punta della TV francese annuncerà la sua candidatura all’Eliseo. Misogino, omofobo, anti-Islam e fiero sostenitore della superiorità della civiltà occidentale, la sua discesa in campo è da molti interpretata come un’ulteriore escalation dell’onda populista che ha invaso l’Europa perlomeno dalla grande crisi del 2008. Si tratta, piuttosto, dell’esatto opposto, sancendo, questa candidatura, la crisi del fronte sovranista a cui stiamo assistendo dalle ultime elezioni europee.

È chiaro che la sua corsa all’Eliseo si rivolge anzitutto ai delusi di Marine Le Pen, così come da noi il successo di Giorgia Meloni è dovuto al declino della leadership di Matteo Salvini.

Il destino di questa candidatura è quello di compattare ulteriormente il cosiddetto "front républicain” attorno al presidente uscente Emmanuel Macron, che potrà approfittare del processo di cannibalizzazione alla sua destra. Una conseguenza talmente lampante da far pensare che, in fondo, Zemmour ha imparato l’unica vera lezione trumpiana: non esiste modo migliore per farsi pubblicità che candidarsi alle presidenziali.

Dato l’esito scontato, folklore a parte, non suscita alcun allarme l’ufficializzazione del nuovo paladino del nazionalismo d’Oltralpe? In realtà sì, per un particolare non così piccolo: Eric Zemmour, colui che vorrebbe escludere dalla Francia i nomi musulmani e chiudere all’immigrazione, è un ebreo di origine algerina, autodefinitosi ebreo berbero.  E già questo dovrebbe suscitare qualche perplessità.

Se aggiungiamo che si dichiara strenuo difensore della civiltà cristiana, sostenitore dello spirito della République che richiede un alto grado di assimilazione («Voi sarete per me un popolo di sacerdoti e una nazione separata» si dice in Esodo 19, 5-6) che ha protetto lo Stato francese per l’affaire Dreyfuss e si è persino spinto ad assolvere il maresciallo Pétain qualcosa non torna.

In ambito ebraico è molto utilizzata (fino al limite dell’abuso) la categoria psicoanalitica dell’«odio di sé», quel sentimento di inadeguatezza dovuto al sentirsi diversi dagli altri. Una sensazione che ha provato ogni bambino ebreo inserito nello spazio pubblico, dal fare la doccia negli spogliatoi dopo la partita di calcio, fino al restare a casa da scuola nei giorni delle feste ebraiche.

Il voto ebraico verso destra

A woman walks past posters showing hard-right political talk-show star Eric Zemmour in Biarritz, southwestern France, Tuesday, Oct. 26, 2021. Provocative anti-immigration commentator Eric Zemmour is drawing national attention in France as he floats a possible presidential bid that could shake up the campaign for the April election.( AP Photo/Bob Edme)

Sarebbe facile interpretare la voglia di dimostrare di essere francese di Eric Zemmour come odio di sé, ma è sempre rischioso ridurre i processi politici a categorie psicologiche.

Il suo caso è, piuttosto, emblematico di un processo interno all’ebraismo europeo a cui assistiamo da diverso tempo. Secondo tutte le stime il voto ebraico verso l’estrema destra è assai cresciuto (anche se resta minoritario).

Per restare in Francia, negli scorsi anni diventava sempre più frequente sentire di ebree ed ebrei che rivolgevano le proprie speranze verso Marine Le Pen, la sola che li avrebbe difesi dall’invasione islamica.

Se questi sentimenti sono assai diffusi in ampi strati dell’elettorato, strano è che siano penetrati anche nella popolazione ebraica, che ha ormai sconfinato in un terreno considerato tabù solo pochi anni fa.

Tutta la vicenda ha senz’altro un significato particolare che ci permette di cogliere tendenze interne all’ebraismo, non solo europeo, visto che i leader sovranisti sono stati tutti legittimati dall’ex premier Bibi Netanyahu, che non ha mancato di accompagnarne diversi davanti alla fiamma dello Yad VaShem.

L’adesione ebraica a queste derive mostra, soprattutto, l’attuale fragilità delle nostre democrazie. Come ci hanno insegnato grandi intellettuali, da Hannah Arendt, a Martin Buber, fino ad Emmanuel Levinas, la cultura ebraica è costitutivamente critica verso le strutture consolidate.

Del resto questo è stato anche il ruolo giocato dall’ebraismo in Europa sia nella cosiddetta alta cultura (si pensi solo a Kafka, Freud, Marx, Benjamin, Einstein), che nella sua semplice dimensione quotidiana, dove l’ebreo ha sempre giocato il ruolo dell’«altro» rispetto ai tradizionali modelli di vita.

Quando quest’ultimo bastione cade, rifugiandosi in una chiusura identitaria, significa che il processo di deterioramento delle nostre società è in uno stato assai avanzato. Il monito, del resto, veniva dalla Torah stessa: «Ricordati di essere stato straniero in terra straniera». E questo a tutela di tutti.

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