Mentre tutti noi guardiamo al Quirinale, come se dalle dinamiche sempre più indecifrabili della crisi di governo dipendesse il nostro futuro, ci perdiamo quello che succede a Davos.

Per anni la convention Svizzera è stata il ritrovo di una superclass mondiale che celebrava se stessa, simbolo di un Occidente ricco e ipocrita che promette prosperità a tutti ma produce soprattutto disuguaglianze. I simboli però sono importanti, lo sa bene Xi Jinping, il presidente cinese che ieri ha dettato da Davos il programma di una globalizzazione di stampo cinese, dopo che con Donald Trump e il Covid quella di matrice americana è andata in crisi.

Come i personaggi di 1984 di George Orwell, Xi usa una lingua da decodificare, il suo “parlanuovo” prende parole e concetti a noi familiari e li ribalta nel loro opposto. Il partito di Orwell predicava che «Libertà è schiavitù, la guerra è pace, l’ignoranza è forza».

Xi dice che la Cina crede nel multilateralismo, ma intende che ha imparato a usare il multilateralismo per i suoi interessi, elogia l’Organizzazione mondiale della sanità, e vuole ammonire chi ne critica le omissioni e omertà sulla pandemia che hanno fatto perdere mesi e migliaia di vite nella fase iniziale del Covid, quando l’Oms elogiava la gestione cinese e negava la trasmissione da animali a uomini del coronavirus.

Xi dice che bisogna evitare «guerre fredde, calde, commerciali e tecnologiche». E sta dicendo che tutte quelle guerre la Cina già le combatte e pensa di vincerle.  

A child wearing a mask reacts near a photo showing Chinese President Xi Jinping at an exhibition on the city's fight against the coronavirus in Wuhan in central China's Hubei province, Saturday, Jan. 23, 2021. A year after it was locked down to contain the spread of coronavirus, the central Chinese city of Wuhan has largely returned to normal, even as China continues to battle outbreaks elsewhere in the country. (AP Photo/Ng Han Guan)

Nei suoi anni al potere Giuseppe Conte è stato indicato alla presidenza del Consiglio da due forze antiglobaliste e sovraniste, poi da palazzo Chigi ha spostato l’Italia nella sfera d’influenza cinese aderendo – unico tra i leader occidentali – alla Nuova via della seta. Poi è diventato il beniamino di Trump, il presidente americano che ha scatenato una guerra commerciale suicida di dazi contro Pechino che è stato il primo tempo di una ben più seria guerra tecnologica.

Infine, si è allineato con la Germania nel difendere la tecnologia 5G, senza seguire Washington nell’ostilità totale a Huawei, la compagnia semi-statale sospettata di essere un braccio dello spionaggio di Pechino.

Ecco, forse anche la complessa crisi politica italiana potrebbe trovare una più facile soluzione se partiti, elettori ed eletti si dividessero e litigassero su quali posizioni tenere sulle vorticose evoluzioni del mondo che ci circonda e sulla sfida ai valori fondanti delle nostre democrazie che l’ascesa della Cina pone.

Le crisi o le alleanze anche tra avversari sarebbero molto più legittime, perfino nobili, se decise sulla base di intenti strategici e visioni del mondo alternative.

Invece rotture e ricomposizioni nell’attuale maggioranza sembrano motivate soltanto dal desiderio di conquistare potere di spesa (a debito) con il Recovery Plan e di conservare il proprio strapuntino di potere, anche al prezzo di condannare all’immobilismo l’intero paese.

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