Esiste forse un cimitero dei disegni di legge dimenticati, come in un romanzo di Carlos Ruiz Zafón, dove riposano i testi sui diritti civili, in attesa che qualcuno decida di salvarli dall’oblio.

Il ddl Zan contro omotransfobia, misoginia e abilismo, che slitta nel calendario a settembre, andando a inserirsi nel vivo della campagna elettorale per il voto delle amministrative, si candida a diventare il nuovo inquilino di questo luogo immaginario.

Ed è senz’altro da credere che chi negli ultimi mesi ha lavorato per far mancare i numeri al Senato, dopo l’approvazione del testo alla Camera, avesse precisamente l’obiettivo di condurlo su un binario morto, per ragioni di strategia politica.

Nel frattempo, le vittorie olimpiche dell’Italia rianimano il dibattito sulla cittadinanza ai ragazzi e alle ragazze nate da genitori stranieri. Se il presidente del Coni, Giovanni Malagò, ha parlato della necessità di istituire lo «ius soli sportivo» per gli atleti neodiciottenni, al fine di consentir loro di gareggiare, voci della politica e della società civile si sono levate a ricordare che la risposta dovrebbe essere universale, ovvero rivolta a un’intera generazione di minorenni che vivono e studiano in Italia, si sentono italiani, parlano i dialetti delle loro città.

La discussione, tuttavia, rievoca le vicissitudini dei passati tentativi di riforma della legge sulla cittadinanza, a cui da almeno vent’anni si tentano di apportare correttivi per estendere il diritto di acquisirla a chi nasce e cresce sul nostro territorio.

Nella passata legislatura, il ddl che introduceva lo ius culturae, legando la cittadinanza al completamento di un ciclo scolastico, ebbe il via libera della Camera e si arenò al Senato. Anche in quel caso, per calcolo elettorale.

Il visitatore che si imbattesse nel cimitero dei ddl dimenticati troverebbe ognuno di essi incartato in discorsi sul tempismo inopportuno, sul carattere sensibile e divisivo dei temi in oggetto, sulle “ben altre” questioni sociali che vengono prima dei diritti civili. Soprattutto, però, ripercorrerebbe le storie di puro tatticismo, svuotato di idealità e principi, dietro al fallimento delle battaglie per la loro approvazione.

Quella che va in scena, ad ogni rinvio della discussione, in ogni nuova impasse dell’iter parlamentare di provvedimenti che (almeno sulla carta) possono contare sulla maggioranza dei voti in entrambe le camere, è una politica ridotta ad agire strategico, priva di riferimenti valoriali, disposta a sacrificare le buone ragioni sull’altare dei giochi di potere.

Non adesso, non così, si sente ripetere. Ma allora quando? E come? Non verrà mai un tempo in cui la politica italiana potrà dirsi distante dalla contesa elettorale, che è pressante e continua. Né verrà un tempo senza “ben altri” problemi a cui rispondere, specialmente nel contesto di una crisi sanitaria di cui non si vede la fine, e di una crisi economica che è solo all’inizio.

Niente impedisce di tenere fermo l’impegno su grandi questioni di diritti, se non la meschinità dei calcoli politici e la mancanza di coraggio.

© Riproduzione riservata