Dopo la bordata del ministro Guido Crosetto contro la magistratura – perché, fuor di ipocrisia, di questo si tratta – politici e opinionisti si sono sbizzarriti (e anche un po’ smarriti) nelle interpretazioni: sono in cantiere inchieste giudiziarie che riguardano esponenti del governo o della maggioranza, oltre a quelle che già conosciamo (Santanchè, Delmastro, Sgarbi, il figlio di La Russa, magari Gasparri)?

Quale il senso del gioco delle parti tra FdI e FI nella guerra alla magistratura? Il magistrato Alfredo Mantovano, sottosegretario alla presidenza del Consiglio e uomo di fiducia della premier, in questa controversia tra falchi e colombe interne alla maggioranza, quale delle due parti sta giocando?

Il ministro competente – e inesistente – ovvero Carlo Nordio, con fama di garantista, ma spesso intestatario “a sua insaputa” di misure di segno opposto, ci è o ci fa? Perché a menare le mani è il ministro della Difesa, e il suo collega della Giustizia è stato reclutato solo ex post per assicurare che la pensa allo stesso modo, che, per carità, non è un attacco all’ordine giudiziario, salvo aggiungere che lui semmai pensava a un esame “psichiatrico” per chi aspira a fare il magistrato?

Del resto, l’ambiguità e il mistero affondano le radici già nel varo del governo: voluto personalmente da Giorgia Meloni («non ricattabile» da Silvio Berlusconi), Nordio ha dovuto passare l’esame con il Cavaliere per assumere la responsabilità del dicastero della Giustizia. Esame agevolmente superato per “titoli”, avendo egli fatto della polemica con i colleghi magistrati la missione della sua vita. Confesso il mio fastidio verso la nostra condanna all’esigenza di venire a capo degli interrogativi di cui sopra, di perderci nei loro meandri.

Anche perché ne avverto l’inutilità. Senza indulgere alle dietrologie e alle congetture circa il senso di quei misteri, che forse non è chiaro neppure ai suoi attori, conviene attenersi ai fatti e al significato politico che essi rivestono. Loro decisamente meno oscuri.

A mio avviso, le cifre politiche sicure sono tre. Il primo: il conclamato vittimismo del governo, la sistematica ricerca del nemico o del capro espiatorio a giustificazione dei vistosi limiti della propria azione sulle questioni che contano e, segnatamente, dello scarto abissale rispetto alle promesse elettorali. Il secondo: il palese slittamento, persino preterintenzionale e tuttavia sempre più marcato, di Meloni e del suo partito dal profilo di una destra un tempo legalitaria a quello “berlusconiano” (a ben riflettere, il cofondatore di FdI Crosetto vanta una lunga militanza in FI della quale si porta appresso anche il conflitto di interessi da ex lobbista.

Non esattamente un bagaglio virtuoso riversato nel suo nuovo partito). Ovvero una cultura refrattaria ai presidi di legalità e, in particolare, incline al doppio standard, per il quale la legge non è uguale per tutti. Qui semmai si scorge un elemento differenziale: il populismo penale, la faccia tanto più feroce con i poveri cristi a mimetizzare l’impunità per i potenti. Quasi evocando il celebre motto del marchese del Grillo. Lollobrigida docet.

Terzo: su tutto – e qui sta la chiave di lettura sintetica, se si vuole, la coerenza che lega premierato assoluto, separazione delle carriere, magistrati sotto scacco, controllo dell’informazione, concentrazione del potere a ogni livello – una visione e persino un istinto riconducibile a quella «deriva antidemocratica» che, a detta di Crosetto, i magistrati mirerebbero a contrastare con la giustizia a orologeria.

Che questo sia il proposito della magistratura è un’illazione malevola, ma che la deriva democratica sia in atto è invece un fatto. Esso sì conforme alla cultura politica della destra postfascista che mira a imprimere il suo segno, snaturandola, nella “vecchia” Costituzione di stampo antifascista con i suoi istituti di garanzia. Un fastidioso impiccio per l’aspirante madre della nuova Repubblica.

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