Self-fulfilling prophecy, ovvero profezia che si autoavvera. I bombardamenti di droni ucraini su asset strategici russi sono una prova in più. Tutti o quasi i leader mondiali stanno facendo a gara tra chi mette più paura alla propria opinione pubblica: gli Usa annunciano una “imminente” invasione di Taiwan da parte cinese, i tedeschi si sono ormai convinti che la grande guerra con la Russia scoppierà entro il 2030, i russi continuano a minacciare l’uso dell’atomica tattica (quasi fosse un’affermazione di forza ma è di pericolosa debolezza), la Francia allarga il suo ombrello nucleare all’Europa, la Gran Bretagna non vuole essere da meno, la Polonia si dice pronta alla guerra, l’Ucraina dimostra di sapere bucare le difese russe anche lontano. Per non parlare del Medio Oriente e dell’assurda violenza che vi regna…

Sembra proprio che i dirigenti aspirino alla guerra anche se dicono di non volerla. Gridando allarmi spingono i propri popoli a prepararsi mentalmente. Proprio come dice la definizione, a furia di ripeterla la loro profezia potrebbe auto avverarsi.

Non che non ci siano buone ragioni per preoccuparsi: la Russia pare voler proseguire nella sua lenta avanzata in Ucraina e minaccia l’Occidente con la “terza guerra mondiale”, cercando di recuperare il ruolo che ebbe come Urss. A Gaza continua una guerra atroce che vede un popolo intero stritolato come ostaggio nella tenaglia di un duplice fanatico estremismo. Gli Stati Uniti di Donald Trump pensano ad un’operazione militare contro Panama per riprendere il controllo del Canale e intimidiscono Danimarca e Groenlandia. La Cina compie azioni provocatorie aereo-navali attorno a Taiwan e così via.

Insomma si sbandiera ai quattro venti l’intenzione di usare la forza per risolvere le contese. Contemporaneamente sembra che ci sia una rassegnazione generale sulle possibilità che il negoziato (quello vero, non il deal o il semplice scambio) e il dialogo multilaterale possano aiutare risolvere le crisi almeno a calmare le acque. Eppure in un passato non così lontano, altre crisi – anche più gravi - furono risolte mediante la diplomazia.

Perché dunque ora non sembra più possibile? Ci sono varie spiegazioni. Da una parte è saltato il vecchio ordine globale e prima che ne nasca uno nuovo, siamo entrati in una zona grigia “che genera mostri”. In questo tempo ciascuna potenza si sente legittimata a fare solo i propri interessi e prova ad oltrepassare le vecchie linee rosse nel tentativo di guadagnare qualcosa. Tuttavia spingendosi ogni volta un po’ più in là, si rischia di accendere la miccia del conflitto globale anche senza rendersene del tutto conto.

Ma c’è un’interpretazione razionale: i leader si sono abituati all’idea della guerra permanente, magari a bassa intensità. Tutta la loro propaganda sarebbe diretta essenzialmente ad abituare l’opinione pubblica interna all’idea di uno stato di guerra permanente. In altre parole, la guerra sarebbe diventata lo stato normale delle nazioni e non l’eccezione.

Ci sono ragioni pratiche: i sistemi economici nazionali e il mercato globale – in particolare finanziario - si sta assestando su una situazione di questo tipo, a dimostrazione che può continuare anche in mezzo ai conflitti e riesce ad adattarsi. Una volta di più si conferma l’idea che il commercio non porta automaticamente alla pace. Come scrive l’ambasciatore Ettore Sequi a riguardo di Gaza, le leadership puntano ad amministrare il conflitto più che a risolverlo. Si tratta di un modo per evitare di dichiarare vincitori e sconfitti: ogni parte mantiene la propria narrazione di “vittoria possibile” ai fini interni, accomodando le proprie priorità in base al conflitto in corso.

Tale gestione della guerra si nutre dell’idea che il conflitto sia inevitabile e che la cosa migliore sia amministrarlo, rendendolo “intermittente”, come scrive sempre Sequi. In tale contesto ci si può aspettare anche una nuova ondata di proliferazione nucleare, giacché diversi paesi stanno pensando a dotarsi dell’arma atomica, tra i quali la Germania, l’Arabia Saudita e la Turchia. Così si balla sul limite estremo della grande guerra sperando di non cadervi dentro.

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