C’erano molte attenuanti, nella prima fase della pandemia, per governi e autorità sanitarie: chi aveva mai gestito qualcosa di simile prima? Dopo otto mesi gli alibi non ci sono più. Sappiamo molto del virus e di come si diffonde il contagio. Sappiamo anche che nessuno ha trovato il vaccino e che il caldo estivo non ha ucciso il virus. 

A differenza che lo scorso inverno, possiamo decidere in modo lucido e informato. Ricordiamo il primo weekend di marzo: il governo che decide un lockdown selettivo di Lombardia e 14 province, la fuga di notizie nel pomeriggio, la gente scappa in treno da Milano e diffonde l’epidemia nel resto del paese, col governo costretto a decidere il lockdown nazionale. 

Oggi la situazione sembra migliore ma, come abbiamo scritto in questi giorni, solo per un effetto ottico: testiamo una persona ogni mille, invece che due ogni mille con in Germania, abbiamo spinto tutti a fare tamponi ma le regioni non sono in grado di somministrarli in tempo utile.

I nuovi casi di positivi si trovano soprattutto nelle categorie testate con una regolarità preclusa al resto della popolazione: politici, calciatori, alti funzionari dello stato. Intanto il Covid corre sulle gambe degli asintomatici. Per fortuna anziani e categorie fragili sono prudenti e restano al riparo. Ma non ci sono ragioni per essere ottimisti. 

Restano tre opzioni. La prima è ripetere gli errori della primavera: adottare in successione una serie di misure restrittive sempre più confuse, così draconiane che nessuno può davvero rispettarle (la polemica di ieri riguarda il premier Giuseppe Conte in un ristorante a fare selfie senza mascherina), un dpcm dietro l’altro con obblighi al limite dell’assurdo come quello di indossare la mascherina in casa propria (chi controlla? E chi sanziona?). Risultati: scarsi, a parte lo scaricabarile. Il governo può attribuire ogni responsabilità alle regioni e viceversa, insieme possono poi prendersela con i cittadini non abbastanza ligi a indossare mascherine, a scaricare la app Immuni, a fare dieci ore di fila per un tampone. 

Un recente studio del Fondo monetario internazionale sugli effetti delle politiche anti-Covid in 128 paesi suggerisce altre due risposte alternative. Prima opzione: un lockdown immediato, generale, drastico e breve. Una, due settimane, magari un mese. Chiusure rigorose concentrate sono molto più efficaci nel limitare il virus che soluzioni intermedie ma prolungate, e anche meno dannose per l’economia. Non c’è bisogno di una laurea in medicina per capire che mettere il coprifuoco ai bar e ristoranti è privo di senso se le persone continuano ad ammassarsi sui mezzi pubblici per andare in ufficio.

Seconda opzione: considerare l’effetto sociale differenziato del Covid. Dal punto di vista dell’impatto sulla vita quotidiana penalizza molto più i giovani che gli anziani, danneggia le donne più che gli uomini, fa addirittura aumentare il reddito disponibile di chi può lavorare da casa (niente ristorante, niente teatro, niente viaggi) mentre azzera quello delle persone impegnate in lavori più fisici, meno pagati, peggio retribuiti.

Se non si vuole fare il lockdown generale, si può fare mirato: chiudere in casa tutti quelli che possono permetterselo. Soprattutto in regioni, come quelle del Sud, non sono preparate a gestire una pressione sul sistema sanitario analoga a quella sperimentata da Lombardia e Veneto. Bisogna intervenire subito, prima che sia troppo tardi. Nella prima fase della pandemia abbiamo giudicato il governo sulla base dell’impegno messo nell’arginare la catastrofe imprevista. Oggi lo giudichiamo soltanto sul risultato.

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