Ricordate l’ultimo lockdown? Molte attività si sono fermate subito, a marzo, alcune sono ripartite a maggio, altre ancora a giugno. I lavoratori “essenziali” hanno continuato a lavorare per tutta la durata del blocco: infermieri, medici ma anche l’agricoltura, la logistica, tutte le imprese che avevano alcuni codici Ateco (che indicano il settore di appartenenza).

Gli altri, non superflui ma neppure indispensabili, si sono fermati. La scelta di esporre ai rischi alcune categorie ha avuto un prezzo elevato in termini di contagi e mortalità: 47.000 casi di Covid-19, cioè un terzo di quelli che si sono registrati tra 22 marzo e 4 maggio, e 13.000 morti, circa il 13 per cento del totale nello stesso periodo. Sono i risultati di un’analisi contenuta nel rapporto annuale Inps e che aiuta a impostare il dibattito sulle misure restrittive per questa seconda ondata. 

La sintesi è semplice e brutale: più persone si tengono in circolazione durante l’epidemia, maggiore sarà il numero di morti. Ne siamo tutti consapevoli, ma associare il numero alla consapevolezza è un’altra cosa. E 13.000 morti sono parecchi. Chiudendo tutto, pare l’ovvia conclusione, avremmo salvato anche quelle vite. L’approfondimento dell’Inps curato da Edoardo Di Porto, Elisabetta di Tommaso, Angelo Manna, Paolo Naticchioni e Francesca Proietti va letto però anche in altro modo. Gran parte dei 105.000 morti ci sarebbero stati comunque, questo il bicchiere mezzo pieno. Ma l’informazione davvero utile è un’altra. 

Quei morti sono soprattutto in alcuni settori specifici: la sanità e la filiera alimentare, mentre tra i lavoratori essenziali nella manifattura, nel trasporto e nella ristorazione i tassi sia di contagio che di mortalità sono molto più bassi. Ad ammalarsi e morire sono stati, insomma, soprattutto infermieri, operatori sanitari, medici, oppure persone impegnate in contesti nei quali mantenere le precauzioni era molto difficile (ricordiamo i focolai nella logistica in Emilia Romagna e non solo). “Questi risultati indicano che un allentamento delle politiche di lockdown in alcuni settori avrebbe un impatto limitato su numero di contagi, con un effetto positivo sull’economia”, scrivono i ricercatori Inps. Certo, servirebbero “ulteriori controlli” come “razionamento all’ingresso e utilizzo di misure protettive” ma molte attività potrebbero rimanere aperte, anche in piena pandemia, con le dovute accortezze. 

In pratica i lavoratori essenziali del primo lockdown hanno svolto la funzione di cavie involontarie per darci una lezione in vista del secondo. Le differenze nei contagi e nella mortalità ci permettono di capire come impostare questa nuova, ancora più difficile, fase. Il lockdown generale, ormai lo abbiamo capito, rappresenta la resa della politica di fronte alla pandemia: si chiude tutto in preda al panico, per rallentare la corsa del contagio, ma così si bloccano anche settori che potrebbero rimanere aperti e garantire, oltre al Pil, la tenuta della società. Francia e Germania, infatti, stanno cercando di attuare dei lockdown selettivi, che limitano alcune attività e ne lasciano proseguire - nel massimo della sicurezza possibile - molte altre. 

Il lockdown generale, inoltre, aggrava le disuguaglianze. I ricercatori dell’Inps hanno potuto contare su un doppio esperimento naturale: il primo blocco del 26 marzo scorso e la parziale riapertura del 4 maggio, che ha riportato alla normalità alcuni e ha tenuto confinati altri tipi di lavoratori. Già nella prima fase a essere penalizzati sono stati soprattutto gli appartenenti alle categorie più deboli della forza lavoro: persone che hanno salari più bassi, che lavorano un numero di settimane all’anno relativamente inferiore, che hanno carriere discontinue, e che più del resto dei lavoratori passano da un contratto a termine all’altro. Su di loro si è abbattuto in modo sproporzionato il primo blocco. 

Dopo la parziale riapertura del 4 maggio la distanza tra i lavoratori bloccati e gli altri si è addirittura allargata, segno che le restrizioni selettive rimaste in vigore hanno penalizzato in modo più che proporzionale proprio le fasce più deboli della forza lavoro. 

Quindi uno dei modi per mitigare l’impatto diseguale della pandemia è evitare provvedimenti troppo orizzontali che lasciano indenne - almeno nel reddito - chi può continuare a lavorare da casa via webcam e colpiscono molto duramente chi invece non ha alternativa al lavoro in presenza. E’ anche il metodo più economico, nel senso che prevenire queste sofferenze differenziate costa assai meno che curarle con politiche redistributive.

Sempre secondo il rapporto annuale dell’Inps, la somma dei benefici erogati dall’ente di previdenza in funzione anti-crisi è di 26,2 miliardi di euro a 14,3 milioni di persone. Nonostante questo enorme sforzo, la perdita del reddito a livello aggregato è stata ridotta soltanto del 55 per cento (ma almeno 302mila persone hanno evitato di finire in povertà). La morale del primo lockdown, in vista del secondo, è insomma la seguente: prendere la mira nelle chiusure, sia come bersagli che come tempistica, è l’investimento migliore sia per combattere il virus che per ridurne l’impatto economico.

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