Nella serata americana del 29 settembre, a notte fonda in Italia, Donald Trump e Joe Biden si affronteranno nel primo dibattito televisivo. Il confronto, moderato da Chris Wallace di Fox News, si svolge a Cleveland.

I temi su cui dibatteranno sono: i precedenti politici degli sfidanti, la Corte suprema, la pandemia, l’economia, gli scontri razziali e l’intergità del processo elettorale. A ognuno di questi saranno dedicati 15 minuti, un po’ poco per affrontare argomenti tanto complessi ma la tirannia del prime time non ammette deroghe.

In queste circostanze si parla di grande attesa, di paese che si ferma, di fiato sospeso e altri luoghi comuni limitrofi, ma quanto contano davvero i dibattiti? Quanto queste performance rituali contribuiscono a formare le opinioni e magari a far cambiare idea agli elettori?

Come influenza l’elettorato

La risposta è molto complessa e incerta, ma oscilla fra il poco e il niente. I politologi si sono molto affannati per quantificare il reale impatto dei dibattiti televisivi, la tradizione inaugurata dal leggendario confronto fra Nixon e Kennedy del 1960, seguito allora da oltre 66 milioni di americani, e ne hanno ricavato poco. 

James Stimson, professore della University of North Carolina che ha studiato le campagne dal 1960 al 2000, ha concluso che «non c’è nessun caso in cui possiamo osservare uno spostamento sostanziale» dell’elettorato a seguito dei dibattiti.

Robert Erikson e Christopher Wlezien, studiosi insigni delle campagne, dicono che in un anno elettorale medio si può predire il risultato delle elezioni con la stessa precisione prima e dopo i dibattiti.

I confronti, in pratica, non spostano quasi nulla. Una recente ricerca del Pew Research Institute sottolinea che una significativa parte degli elettori ritiene i dibattiti informativi, ma poco efficaci per prendere la decisione. Inoltre, a oggi circa 900mila americani hanno già votato, 28 milioni hanno già richiesto di poterlo fare e 43 milioni di schede postali saranno inviati a breve, cosa che riduce il numero degli elettori che, anche volendo, potrebbero prendere una decisione alla tv.

Il palco del dibattito (AP)

Produrre meme

Ma c’è anche un’altra ragione per cui i dibattiti contano poco. Nel tempo il rituale della democrazia matura si è trasformato in quello che i linguisti chiamano un atto performativo, un gesto che non produce conseguenze reali e si esaurisce nel fatto stesso di accadere.

I dibattiti servono a produrre meme virali dimenticabili, non a spiegare, convincere e soggiogare dialetticamente l’avversario. Infine, c’è il problema del contenuto. Abraham Lincoln e Stephen Douglass nei grandi dibattiti del 1858 che hanno fatto scuola si affrontavano con questo format: uno parla per sessanta minuti, l’altro risponde in novanta minuti e il primo ribatte per trenta minuti.

Era uno schema pretelevisivo, certo, ma era pensato per scandagliare in modo esaustivo i temi rilevanti, esponendo argomenti complessi, era cioè costruito sulla razionalità, mentre quello di oggi è sbilanciato sull’emotività e sulle reazioni a casaccio.

Biden si è preparato duramente per il dibattito, mentre Trump ha fatto sapere di non essersi preparato per nulla. Viene il sospetto che il presidente abbia capito il format meglio dello sfidante.

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