Giorgia Meloni ha partecipato per due volte al CPAC, la grande convention mondiale della destra conservatrice organizzata dal Partito repubblicano. La prima volta, nel 2019, alla Casa Bianca c’era ancora Donald Trump e Meloni guidava un piccolo partito. I toni del discorso erano duri: sovranisti, anti establishment, euroscettici, trumpiani.

Nel febbraio 2022, la seconda volta, Giorgia Meloni era la candidata in pectore per la presidenza del Consiglio, il suo partito cresceva nei sondaggi e gran parte del suo discorso era incentrato sul sostegno all’Ucraina contro l’invasione russa, la difesa della libertà e dei valori conservatori. Un’orazione più pacata e astuta quest’ultima, senza riferimenti a Trump e senza esagerazioni populiste.

Fino a che era all’opposizione, per Meloni è stato facile aggirare il problema Trump con il più classico dei tatticismi politici ovvero sostenere il tycoon nell’ascesa e abbandonarlo nel momento della caduta.

Oggi però sia l’America sia Meloni fronteggiano una situazione diversa. Negli Stati Uniti, allo stato attuale, Trump ha ottime chance di vincere ancora le primarie del Partito repubblicano e, stando ai sondaggi, se Joe Biden confermerà la propria ricandidatura, egli ha anche buone possibilità di tornare alla Casa Bianca battendo il presidente uscente.

Trump non è un candidato che rientra nella fisiologia della dialettica politica: nel 2020 non ha di fatto accettato il risultato delle elezioni, ha sdoganato un assalto al Campidoglio da parte dei suoi supporter e nei quattro anni da presidente ha governato in una sorta di conflitto permanente con l’alta burocrazia e l’establishment americano.

Ritorno problematico

Il suo ritorno è dunque un problema non soltanto per chi lo avversa, ma anche per quelli che nel mondo sarebbero i suoi potenziali alleati come i partiti della destra europea. Si pensi, in primo luogo, a un risultato elettorale incerto dove poche migliaia di voti negli swing states possono determinare la vittoria.

Cosa farebbe a quel punto Trump? Insorgerebbe in caso si profilasse una sconfitta? Griderebbe al complotto? Istigherebbe dimostrazioni potenzialmente violente? Reazioni di questo tipo, ai limiti della legalità costituzionale, sono facilmente pronosticabili e sarebbero fonte di imbarazzo per i suoi alleati internazionali.

È per questo motivo che, con buone probabilità, Meloni di Trump non parlerà non solo nei prossimi mesi ma fino a che non ci sarà un risultato ufficiale delle elezioni presidenziali. Anche perché la premier ha costruito un buon rapporto con Biden e ha di fatto accettato tutti i suggerimenti americani in politica estera.

Poniamo ora che Trump rivinca le elezioni. È noto che il presidente populista non intenda sostenere lo sforzo militare dell’Ucraina e che gli Stati Uniti non darebbero più sostegno a Volodymyr Zelensky e forse cercherebbero una tregua, se non una pace, con Vladimir Putin.

A quel punto per Meloni si porrebbe una scelta doppia: seguire la linea politica della destra americana in cui si è per anni riconosciuta impersonata dal rieletto Trump oppure restare leale alla propria linea di politica estera a difesa dell’Ucraina magari attraverso un supporto militare europeo che però rischia di costare molto?

Anche sul fronte del rapporto con la Cina, su cui la premier si è mossa bene ponendo fine all’accordo della Via della Seta, si aprirebbe una incertezza con Trump alla Casa Bianca. Il tycoon lavorerebbe per trovare un accordo di coesistenza, anche attraverso minacce e nuove barriere doganali, oppure opterebbe per il pugno duro con Pechino, soprattutto rispetto a Taiwan, facendo crescere ancora la tensione tra le due potenze?

Nello stesso sentiero si iscrive il problema della Nato. Trump ha sempre dichiarato di voler ridurre la spesa americana per l’alleanza atlantica chiedendo agli europei di contribuire maggiormente. Meloni, in questo caso, si porrebbe sul crinale di Washington, assecondando di fatto forme di disimpegno degli Stati Uniti rispetto all’Europa, per guadagnarsi la benevolenza di Trump o al contrario si impegnerebbe per tenere unito il fronte euro-atlantico anche se questo dovesse causare delle tensioni con il presidente repubblicano?

Insomma le incertezze determinate da una rielezione di Trump sono molte e questa volta non basterà il senso di appartenenza politica per schierarsi dal lato che si considera giusto. Si intersecano interessi nazionali, europei e di sistema internazionale che quasi certamente configgeranno tra loro nel caso di una seconda presidenza populista.

A quel punto si porrà una domanda di fondo se Meloni guiderà ancora il governo italiano nel 2025 e Trump dovesse vincere le elezioni, la premier sarà guidata dalla partigianeria politica, dalla logica della tribù internazionale, oppure dalla ragion di stato? In ogni caso le difficoltà per il governo in politica estera non mancheranno.

© Riproduzione riservata