L’Etiopia è un calderone che ribolle. Dopo l’assassinio avvenuto in giugno 2020 del cantante oromo Hachalu Hundessa, personaggio molto amato e ascoltato per le sue canzoni di protesta, ad Addis Abeba e in Oromia si sono scatenate le bande etniche che hanno preso di mira in primis le proprietà degli amhara e dei cristiani in particolare, per poi degenerare in scontri diffusi. Anche il premier oromo Abiy Ahmed è stato accusato dai suoi di non difenderli come dovrebbe.

Gli oromo sono il gruppo di maggioranza relativa che da sempre lotta contro la marginalizzazione sistematica a cui sono stati sottoposti da secoli, sia durante l’impero tigrino e amhara sia dal comunismo del Derg sia, infine, dal sistema federale basato sui tigrini del Tplf. Questi ultimi avevano promesso più autonomia alle altre regioni, costruendo un sistema federale ma alla fine avevano mantenuto l’essenziale del controllo politico nelle loro mani. L’avvento dell’attuale premier Abiy Ahmed sembrava dover porre fine a tali discriminazioni ma il sogno è durato poco.

Le rivendicazioni tradizionali degli oromo vertono sull’uso della lingua (si chiede uno status pari all’amarico), sulla regionalizzazione e sulla gestione della capitale Addis Abeba che è sita in territorio oromo (ma anche questo è controverso).

Tali esigenze storiche avrebbero dovuto costituire il contenuto del programma riformatore del nuovo premier, salito al potere nel 2018, estendendolo anche alle etnie minori. La leadership oromo si era messa alla testa di un movimento di emancipazione che avrebbe definitivamente cambiato il centralismo amhara e tigrino.

Tuttavia, a dire dei leader oromo, Abiy li ha traditi mediante la costituzione di un nuovo partito unitarista, il Partito della prosperità (Pp), dominato da un’alleanza tra una parte dei suoi seguaci e gli amhara (un’alleanza “centrista” intesa in senso geografico). Così la tensione è salita e molti oromo sono entrati in dissidenza, abbracciando in parte la lotta armata.

La battaglia tra le zone urbane

Già nel 2014 e 2016 c’erano state sommosse contro il piano regolatore della capitale che avrebbe dovuto inglobare altre parti di Oromia staccandole dallo stato. Di fronte alle proteste, nel 2017 il regime federale ancora dominato dai tigrini aveva ceduto e fatto alcune concessioni ma ciò non era bastato e le rivolte erano riprese nel 2018 e nel 2019.

Alla fine lo scontro si è trasformato in una battaglia tra le zone urbane (in genere a popolazione mista) e le campagne a schiacciante maggioranza oromo. L’Oromo liberation front, e l’Oromo liberation army che ne rappresenta una scissione, si sono radicalizzati sempre più.

Il ribaltamento delle alleanze tra i quattro partiti che formavano la maggioranza all’interno del sistema federale a guida tigrina, mediante un patto oromo-amhara, era servito per far fuori il Tplf (accusato di manipolare le altre etnie per dividerle) ma si era rotto presto, trasformandosi in una lotta intestina tra élite.

Gli oromo di campagna si erano sentiti traditi e molti ex compagni di Abiy si erano convinti che quest’ultimo li aveva svenduti in cambio di un’alleanza con gli amhara. Anche sull’omicidio di Hachalu la situazione è apparsa torbida: le parti si sono accusate a vicenda di averlo assassinato e ancora oggi non si sa davvero chi sia stato.

Molti sospettano che Abiy e il suo Pp siano all’origine dell’ultima ondata di violenza etnica che è stata scientemente fermata per ottenere una facile giustificazione alla raffica di arresti dei capi oromo dissidenti, sia quelli violenti che gli altri.

Molti leader oromo vengono addirittura accusati di aver tramato con l’Egitto (il nuovo nemico assoluto dell’Etiopia) per scatenare un genocidio anti cristiano e fondare in Oromia uno stato islamico. Non è estraneo a tale accusa il fatto che Abiy Ahmed, pur oromo e di padre musulmano, sia divenuto cristiano evangelicale.

Due fronti per Abiy

Gli arrestati dell’ultima ondata sono quasi 10mila, inclusi i rappresentanti non oromo dell’opposizione. Anche l’ex presidente della regione Lemma Megersa, ex sindaci o accademici sono accusati di sedizione e complotto, assieme ai leader dell’Olf o dell’Ola.

In realtà la loro colpa è soltanto quella di non aver voluto aderire al nuovo Prosperity party di Abiy (nato nel dicembre 2019). Così Abiy ha due fronti aperti contemporaneamente: quello contro il Tplf a nord e quello contro la maggioranza degli oromo a sud est. La domanda che si pongono gli analisti è per quanto tempo sarà in grado di sostenersi con l’aiuto dei soli ahmara, che del resto non lo sentono uno di loro.

Per ora Abiy ha ancora diversi sostenitori tra gli oromo ma la repressione di questi ultimi tempi – che avviene coperta dalle notizie di guerra al nord – tendono a diminuirli.

In tale quadro complesso cresce l’etno-nazionalismo da tutte le parti, gli scontri etnici si moltiplicano e anche tra gli ahmara non tutti sostengono il Pp. La situazione si polarizza e i movimenti nazionalisti ahmara accusano gli estremisti oromo (come i Qeerroo, il movimento studentesco oromo) di volere la guerra razziale. Si dice che durante i recenti scontri, i capi rivoltosi siano andati di casa in casa con liste di nomi di persone da uccidere, preparate in precedenza.

Tra gli arrestati dopo gli scontri risulta anche l’influente Jawar Mohammed, facoltoso cittadino americano rientrato dal Minnesota nel 2018 per sostenere la lotta nazionalista oromo, tra i creatori dei Qeerroo e in primo momento sostenitore di Abiy.

La chiesa ortodossa

Anche la chiesa ortodossa è stata coinvolta in tali polemiche e non solo a causa dei recenti attacchi ma anche perché in seno alla sua parte oromo (un po’ meno della metà dei 40 milioni di oromo è cristiana; un terzo è ortodossa e anche Hachalu Hundessa era cristiano ortodosso) sta crescendo la volontà di costituire una chiesa oromo autocefala.

Il quadro etiopico non deve sorprendere: il governo centrale ha spesso usato la forza e sfruttato le faglie etnico religiose del paese per combattere i suoi nemici politici, come fece nel 2018 contro le tendenze secessioniste somale della regione dell’Ogaden oppure contro le richieste di maggior autonomia delle piccole etnie del sud. Inoltre c’è da tener conto del fatto che gli amhara sono sparsi in tutte le regioni: durante il XIX secolo la monarchia aveva disseminato il paese di coloni amhara per cambiare la composizione etnica e rendere il paese più omogeneo.

Dopo i fatti di gennaio la reazione ufficiale del governo del Pp è stata che gli estremisti oromo e tigrini assieme avevano organizzato le violenze per destabilizzare l’Etiopia e per giustificare un colpo di stato. Controcorrente si è posta l’opposizione politica che sta spingendo per l’apertura di un dialogo nazionale che favorisca un processo di pacificazione.

La crisi non è recente. Si può dire che è stata innescata dalla stesura della nuova costituzione a inizio anni Novanta. All’epoca si scelse la federazione. La nuova costituzione federale tuttavia piantò i semi della discordia già nel testo. L’art. 39 stabilisce il “diritto alla secessione” di ogni regione, mentre l’art. 47 divide il paese in base a una presunta omogeneità etnica che nella realtà non esiste o è molto più mista e porosa. Improvvisamente molti etiopici si sono trovati come stranieri a casa loro perché non appartenenti all’etnia maggioritaria a cui lo stato aderente alla federazione era intitolato.

L’etno-federalismo ha così creato le basi per la crisi odierna. Finché il potere è rimasto nelle salde mani dei tigrini del Tplf, nessuno se ne è avveduto; ma appena l’equilibrio si è rotto ecco che è ricominciata la lotta intestina. Numerosi amhara attaccati in queste settimane e scacciati, vivevano in Oromia da generazioni ma sono stati considerati come stranieri. Così era già avvenuto anche per gli amhara radicati nella zona rivendicata dal Tigray e oggi, in rivalsa, avviene ai tigrini che l’avevano popolata, a cui gli amhara l’hanno tolta di nuovo.

Insieme, divisi

L’Etiopia nei secoli è una storia di ibridazioni che la costituzione voleva fissare su base etnica senza riuscirci, un po’ come fecero i colonizzatori europei in tutta l’Africa. È molto difficile stabilire le identità e le terre in parallelo. Già nel preambolo della costituzione si parla di «nazioni, nazionalità e popoli», creando confusione e ambiguità sulle definizioni.

Da quando i sidama sono divenuti la decima nazionalità con il loro stato, c’è chi dice che gli stati di Gambella, di Harar, dei popoli del sud e del Benshangul Gumuz – che sono multietnici – potrebbero decidere di dividersi creandone decine e provocando una frammentazione esponenziale.

Il federalismo etnico non ha nemmeno rafforzato lo spirito nazionale. Per questo oggi il Tigray si sente nel suo diritto a reclamare la secessione, com’è scritto nella carta stessa. A guardare da vicino ciò che è accaduto in Etiopia in questi anni recenti si possono osservare numerosi spostamenti di popolazione dovuti agli scontri etnici, come quello tra oromo e somali del 2017 che provocò la fuga di 240mila somali e 140mila oromo: uno scambio di popolazioni tra i due stati come non si era mai visto prima.

Ciò che serve urgentemente è una riforma che riveda l’etno federalismo e lo stesso etno linguismo che stanno spezzando il paese. Si tratta di de-etnicizzare gli stati membri della federazione e proteggere le minoranze di qualunque tipo e ovunque si trovino, per disinnescare una vera e propria bomba a frammentazione.

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