Personalmente, non sono molto interessato a quel che accade a Sanremo. Ma non amo il disprezzo del popolo da parte di quelli che sostengono di amarlo.  Allo stesso tempo non nutro speranze di emancipazione sociale.

Il festival è quel che è: lo specchio del paese, non della sua critica. Piuttosto, mi pare sintomatico il modo tribale con cui ne parliamo. Ci sono quelli per cui non si può non parlarne e quelli per cui non si deve in alcun modo farlo.  I nostri giudizi sono ormai estremizzati.  Tutto fa schifo oppure tutto è unico.

Io sono colpito in modo particolare da due aspetti che mi siano utili anche a quella parte del Paese che vorrebbe costruire una critica all’attuale modello sociale. 

Nostalgia del dialogo tra generazioni

Il primo aspetto sorge dalla domanda sul perché il festival di Sanremo esercita ancora un potere di attrazione così grande.

La risposta che darei è che il festival rappresenta una delle poche occasioni pubbliche in cui il “contemporaneo” mostra ancora la sua densità generazionale.

Essere contemporanei non vuol dire infatti essere coetanei. La contemporaneità è abitata da tante generazioni che devono essere in grado di parlarsi, ascoltarsi, conoscersi.

L’interdizione di questa capacità di dialogo intergenerazionale mi sembra una cifra della nostra povertà di senso.

Persino i social sono a compartimento stagno, dal punto di vista generazionale. I più anziani non sanno cosa siano, i cinquantenni impazzano su Facebook sentendosi così ancora giovani, i veri giovani sfottono su TikTok i cinquantenni che si credono giovani su Facebook.

Non abbiamo più spazi pubblici in cui le generazioni si incontrano e possono, in questo modo, sentirsi davvero contemporanei.

Ecco, Sanremo diventa un pretesto per colmare questa mancanza. Gli anziani degnano di ascolto Lazza, gli adolescenti cantano a squarciagola Fatti mandare dalla mamma. Il problema è che l’esperienza di questa contemporaneità intergenerazionale è concessa dentro uno spazio che è già definito culturalmente: non è libero (anche se Chiara Ferragni vorrebbe farci pensare il contrario), è già predeterminato dal primato della merce e del consumo che sfrutta il nostro bisogno di incontro.

Abbiamo nostalgia di un’agorà dove poter incontrarci tra generazioni, invece dobbiamo accontentarci di farlo per qualche ora dentro uno spazio che non è poi così diverso da un centro commerciale che vetrinizza il nostro bisogno di socialità intergenerazionale.

Uno dei compiti della sinistra è di prendere sul serio questo bisogno, non di snobbarlo. Di lottare per costruire spazi pubblici dove si possa essere contemporanei senza dover essere consumatori.

Critica sociale e individualismo

Tutti gli apparenti spazi di critica dentro il Festival – dalla stola di Ferragni al rap del suo consorte fino alla retorica di Benigni che disarma la Costituzione rendendola pronta ad ogni manipolazione – hanno diritto di cittadinanza precisamente per la loro appartenenza a ciò che dovrebbero criticare. Ma non basta questa consapevolezza, a mio avviso.

La verità è che anche le nostre aspettative connesse al bisogno di una critica sociale adeguata sono comunque ancorate al principio individualista. Ci affidiamo ai grandi personaggi, ai grandi comunicatori. Comunque a qualcuno.

Per cui ogni critica appare del tutto estemporanea, affidata all’effetto carismatico di un singolo, chiusa dentro un pensiero che, anche quando è brillante (e non mi riferisco certo ai performer di Sanremo), resta una costruzione individuale, non condivisa. La critica estetica ha ormai sostituito ogni sorta di critica politica e sociale.

Mi domando se questo tratto individualista – persino narcisista, come la “lettera a se stessa” di Ferragni dimostra – a cui abbiamo costretto l’esercizio della critica sociale non sia uno dei caratteri che ha determinato il deterioramento della egemonia della sinistra.

Un tempo c’era la Scuola di Francoforte o, più modestamente, anche in Italia chi aveva il compito della critica si sentiva parte di un pensiero più sistematico, non ridotto al proprio pensiero.

Oggi mi sembra che l’individualismo – cioè il principio antropologico di ciò che dovremmo criticare – sia a fondamento delle forme della critica stessa. Per cui la colpa non è di Fedez, Ferragni, Benigni.

Non possiamo chiedere loro di essere i nuovi rappresentanti della critica. Ma forse il vero problema è che non dovremmo chiederlo a nessuno. 

Se vogliamo davvero una critica sociale all’altezza, dobbiamo ricostruire una cultura che non sia di nessuno, ma di molti. Affidarci al pensiero, non affidare il pensiero a una bella faccia da copertina.

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