Giuseppe Conte sarà abbattuto dalla tramontana che scende dal Mugello  o resisterà come una quercia ben radicata? La sopravvivenza del governo non è in cima alle preoccupazioni degli italiani.

A tutti preme piuttosto che ve ne sia uno che conduca questo paese fuori dalla pandemia con il minor danno possibile, e lo traghetti verso la ripresa. Detto questo, poi ci sono le preferenze politiche per le quali avere Matteo Salvini o Nicola Zingaretti a Palazzo Chigi, fa una grande differenza.

In questi giorni il mondo politico è in agitazione grazie all’insofferenza del leader di Italia viva Matteo Renzi, angosciato da quel 3 per cento a cui lo inchiodano i sondaggi che, in più, lo mettono in fondo alla classifica dei politici più stimati, spalla a spalla con il capo politico reggente dei Cinque stelle Vito Crimi. 

La destra nella crisi

Se la maggioranza traballa cosa succede a destra? Si muove qualcosa è tutto congelato? I partiti di opposizione sembrano compatti grazie anche a un elettorato  molto più omogeneo di quello della maggioranza. Tuttavia si intravedono passaggi che riflettono un potenziale cambio di strategia.

Silvio Berlusconi è stato il primo a scartare, dimostrando grande apertura al governo. Ma una volta ottenuta la norma anti-Vivendi che ha salvaguardato la sua azienda, Mediaset, dall’assalto del corsaro francese, è rientrato nei ranghi. Lascia però intendere che può avvicinarsi di nuovo alla maggioranza in caso di estremo bisogno, ovviamente in cambio di qualche benefit.

Chi, come Renato Brunetta, pensava che Forza Italia avesse definitivamente abbandonato l’alveo del centro-destra e si proponesse per un nuovo predellino, seppure in formato lillipuziano,  non teneva conto che il partito sopravvive solo per l‘attrazione, tuttora trainante, di Berlusconi, il più longevo leader politico d’Occidente. 

Senza di lui Forza Italia si affloscerebbe. Anche perché una sua eventuale trasformazione in un partito moderato- centrista non troverebbe terreno fertile. Per il semplice fatto che questo tipo di politica non ha spazio, né in Italia né altrove. 

(Foto Davide Anastasi/LaPresse)

Al centro non si vince

Lo schema interpretativo per cui si vince al centro è vecchio di cinquat’anni e ormai superato: la stessa vittoria di Joe Biden , esaltata come il trionfo della scelta moderata,  ha trascurato che , da un lato, la sua agenda era molto più sinistra di quella di Barack Obama, e dall’altro, che Donald Trump, con un programma e una immagine non proprio “centristi”, ha ottenuto il più grande successo elettorale di un repubblicano alle presidenziali.

Si vince se si presenta una proposta molto incisiva che mobiliti al voto soprattutto propri tradizionali elettori. Salvini avrebbe quindi ragione nell’alimentare uno scontro ad alzo zero con il governo. Però sembra a corto di munizioni e nelle retrovie circola un certo scetticismo.

Non solo le elezioni amministrative sono andate malissimo, ma il tema mobilitante, la paura dell’immigrazione, non scalda più i cuori, dato che ben altre sono le preoccupazioni degli italiani. E i “governatori” (del nord) hanno aumentato il loro peso per cui Salvini dovrà decidere se sostenere o meno l’autonomia differenziata chiesta da Veneto e Lombardia: una opzione che confligge con la strategia nazionale di discesa al sud intrapresa da leader.

Infine, dovrebbe essere diventato chiaro a Salvini che l’assicurazione sulla vita del governo gliela fornisce sempre lui. I vagheggiamenti di Giancarlo Giorgetti su un approdo della Lega al Partito popolare europeo, per quanto stazionino ancora nell’empireo dei pii desideri,  hanno comunque una loro razionalità: finché la Lega e il suo attuale leader saranno percepiti come il nemico dell’Europa – posizione confermata l’altro giorno in parlamento dall’intervento di Alberto Bagnai sul Mes – l’establishment continentale farà terrà bruciata a una Italia con un Salvini di nuovo al governo o addirittura a palazzo Chigi.

La Lega moderata?

Però, la scorsa settimana il leader leghista per la prima volta si è dichiarato disponibile al dialogo con il governo. E’ appena un primo timido passo: ma se l’atteggiamento leghista cambia veramente, allora Conte è meno sicuro. 

Se poi aggiungiamo che Fratelli d’Italia, nonostante una polemica a volte sguaiata, in alcuni momenti si dimostra dialogico, vediamo come il centro-destra stia articolando una opposizione più variegata.  Ancora netta e tranchant, ma con qualche apertura.

Allora è chiaro che cannoneggiando Palazzo Chigi si aiuta la destra ad uscire dal suo isolamento.

Renzi lavora in questa direzione, e in vista di un allargamento della maggioranza lusinga il ministro degli Esteri Luigi Di Maio con la prospettiva della premiership.

Il Pd invece va per un’altra strada. Pur insofferente per le sbavature del premier, al quale, come ha giustamente ricordato il vicesegretario Andrea Orlando, servirebbe uno staff più adeguato, non può che continuare a sostenerlo.

Per tre ragioni strategiche, al di là dell’ opportunità di una stabilità di governo in questo periodo: per continuare quell’opera maieutica di maturazione dei Cinque Stelle intrapresa con il Conte 2 (dopo aver perso un anno, come ricordava Mario Monti sul Corriere della Sera); per concretizzare il sorpasso sulla Lega, ormai prossimo;  e per garantirsi l’appoggio di Conte in futuro, visto che il premier dispone di un credito e un consenso non irrilevante.

Al Pd non conviene né dare una mano alla destra ad uscire dal suo ghetto antieuropeo, né sostenere Renzi nelle sue scorribande, né tanto meno favorire lo scatenamento di una guerra intestina nei Cinque stelle. Ancora una volta deve reggere il sistema.  

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