I numeri sono fondamentali per insediare o confermare un governo. E questi Giuseppe Conte li ha ottenuti. Quindi può legittimamente continuare ad operare. Ogni altra considerazione su questo punto può venire solo da analfabeti delle regole e del funzionamento dei regimi parlamentari.

Inoltre va ricordato agli smemorati che un governo della caratura intellettuale e morale come quello presieduto dal futuro presidente della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi (1993) non godeva della maggioranza assoluta. E lo stesso valeva per un esecutivo non proprio debole come il D’Alema 2 (1999) che cadde solo per una decisione solipsistica e autolesionista dello stesso Massimo D’Alema.

Conte può quindi andare avanti. Ma in che direzione? Un conto i numeri, un conto la politica e le politiche.  Pur con una maggioranza sul filo, il governo è oggi più compatto. Non opera più con il freno tirato perché non deve più guardarsi dai continui distinguo avanzati dai renziani doc.

La compattezza guadagnata va però messa a frutto, non dilapidata con gli allargamenti al centro di cui si vocifera. Uno slabbramento dei confini della coalizione rischia di mettere in mora l’opera di formazione e convincimento che i democratici hanno intrapreso nei confronti dei pentastellati.

Un lavorìo paziente ma che sta dando i suoi frutti: basta guardare alle loro metamorfosi sul terreno della politica internazionale, con una piena adesione al progetto europeo. Se si pensa dove li stava portando il traino salviniano, il cambio di direzione è netto e salutare.

Questa fase potrebbe favorire una maggiore integrazione di visioni e di politiche tra i due partner della coalizione saldando la confusa propensione welfarista dei Cinque stelle con l’impianto solidamente socialdemocratico del Pd, e quindi prefigurando quella alleanza sistemica inimmaginabile un anno fa, quanto possibile e necessaria oggi per fronteggiare la destra populista-trumpiana.

Se questo è il progetto strategico del Pd, allora l’idea di puntellare il governo con aperture al centro facendo raccolta di centristi vari non aiuta di certo. 

Sostituire Italia viva, per tanti aspetti insopportabile ma pur sempre operante nell’alveo del centro-sinistra, con spezzoni più moderati, sfregia il significato della rottura.

Se Renzi era inaffidabile, come certamente lo è, e remava contro le politiche pro-labour e di lotta alle diseguaglianze, non lo si rimpiazza con personaggi la cui  storia non ha nulla a che spartire con la sinistra riformista. 

Il governo guadagna in credibilità e consenso se propone politiche per riequilibrare le tante storture e iniquità ereditate dal passato senza curarsi troppo del sostengo di qualche sparuto senatore. Meglio cadere sui progetti innovativi e ambiziosi, anche di rottura, che perdere l’anima. E se il governo cadrà perché Italia Viva avrà votato contro, beh, gli elettori poi valuteranno la convergenza tra Renzi e la destra di Salvini e Meloni.

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