La navicella del bilancio italiano sta per lasciare il porto con la sua velatura rabberciata ma abbondante, mentre le previsioni meteo indurrebbero a partire con poca vela, ben rafforzata. Spaventa l’alto debito pubblico, che nelle previsioni del governo non scenderà fino al 2026: davvero proprio alla vigilia del voto farà quanto non ha fatto prima? Salirà invece se, come è probabile, cresceremo meno delle ardite previsioni, o slitterà l’incasso di 20 miliardi da privatizzazioni. Come ha scritto qui il 23 ottobre Alessandro Penati, sbaglia il governo a usare quei proventi, se mai ci saranno, in spesa corrente: vende la casa e se la spende al ristorante.

Quanto potremo correre con questo tempaccio? L’ottimismo sarà d’obbligo per chi governa, ma è folle dare mancette, mantenere la flat tax, addirittura ampliarla. È iniqua perché fa pagare ai dipendenti, a parità di redditi reali, multipli di quanto pagano gli autonomi, che dichiarano solo in media il 70%; molti si accucceranno sotto la soglia massima, incentivando il nero, riducendo le entrate e limitando la crescita, che sola farebbe calare i debiti sul Pil.

Di crescita si parla ma nulla si fa per propiziarla, si pensi agli ostacoli, ai cambiamenti e alla protezione di chi ha qualche influenza. Non si tratta solo di tassisti, balneari e assortiti concessionari, o dell’esibita protezione al Made in Italy e alla nostra agricoltura, che spinge l’inflazione. Ben più grave è che le riforme per rilanciare lo sviluppo previste dal Pnrr – contro cui Fratelli d’Italia votò – sfumano all’orizzonte, come la legge di Concorrenza, che dovremmo varare ogni anno.

Il salario minimo

Il governo ignora le cause strutturali che ci han fatto perdere terreno e ridotto le retribuzioni reali, mentre aumentavano in Francia e in Germania; se poi le conosce e nulla fa per ovviarvi, è pure peggio. Servirebbe il salario minimo, anche Confindustria lo auspica, ma la premier Meloni non vuole, per non darla vinta all’opposizione.

Che attendersi da chi ha solennemente promesso di non disturbare le imprese? Sono queste a dar lavoro, non la spesa pubblica in sé, ma davvero lo danno, e di buona qualità? Chi esce dalle nostre scuole ha una buona formazione, nonostante il disinteresse della politica riflesso nelle misere paghe dei docenti, e l’ostilità di questi alla valutazione dei risultati.

Abbiamo meno laureati di Francia e Germania, eppure cresce il numero di chi deve andare altrove per avere lavoro e retribuzione adeguata alle competenze maturate, e pagate, in Italia. Sono persone con più coraggio e iniziativa, che molto gioverebbero alla nostra crescita.

Il capitale umano perso

Secondo lo studio “Bugie, maledette bugie, e statistiche”, coordinato da Ludovico Latmiral, Luca Paolazzi e Brunello Rosa, i giovani fra i 18 e i 34 anni che han trasferito la residenza all’estero fra il 2011 e il 2021 non sono, al netto dei rientri, i 300mila risultanti all’Aire, ma quasi un milione di più, con un costo in “capitale umano perso” di 38 miliardi.

Li abbiamo spesi per formare, soprattutto in scuole e università pubbliche, persone che tante imprese non han saputo utilizzare. Mentre ci strappiamo le vesti per l’immigrazione, trattandola come uno scarto, ciechi al potenziale che contiene, ignoriamo questo scandalo: buttiamo via persone e soldi, regalando gli investimenti, e il futuro che racchiudono, a chi sa farli valere.

Il tanto vituperato stato ha dato a queste persone una formazione costosa che le nostre imprese, tanto lodate, non vogliono, o possono, remunerare come si deve.

© Riproduzione riservata