Ci sono dei momenti, nella storia, che possono definirsi occasioni di civiltà – pur con tutta l’incertezza e la contingenza evocate dalla parola “occasioni”. Occasioni che, perdute, significano tragedia, e còlte invece possono (forse) inaugurare epoche migliori.

L’esempio di un’occasione perduta è quella che Stefan Zweig in un suo memorabile racconto ha chiamato La rinuncia di Wilson, intendendo il «momento fatale» in cui la resistenza di Woodrow Wilson «alle potenze dell’avidità, dell’odio e della stupidità» e il suo sogno di pace perpetua fu spezzato dalle pressioni di Clemenceau in primo luogo – ma anche dell’inglese Lloyd George e dell’italiano Sidney Sonnino – che condussero alla disastrosa pace di Versailles.

L’esempio di un’occasione còlta è il secondo dopoguerra, con la Dichiarazione universale dei diritti umani, i primi trattati europei, le nuove democrazie, fra cui la nostra. Dal riferimento a quel periodo di rinascita non a caso ha preso le mosse il discorso programmatico di Draghi.

Nel 1919 ben pochi fra i politici intravidero «quali forze creative sarebbero scaturite da quel no» – che invece, ci fa intendere Zweig, milioni di invisibili da ogni parte del mondo silenziosamente supplicavano Wilson di sostenere.

Non so se il discorso di Draghi al Senato abbia suscitato paragonabili speranze fra i cittadini italiani e quelli europei – altrettanto interessati, dato che il disegno ideale che ne emergeva, terso, è quello di un’Italia che si salva in Europa, in un’Europa sempre più integrata e rafforzata in direzione federale – o allora di un’Italia che si perde, ma trascina alla rovina questa Europa. Con una sua nuova unità e solidarietà fiscale e una comune gestione delle politiche internazionali (e migratorie), delle strategie di investimento, dell’ecologia e del welfare. E, tornando a noi, con tutte le precise indicazioni di riforma che questo comporta per il governo del paese, e non da rinviare a dopo l’emergenza ma da iniziare subito: secondo il detto di Cavour.

Fra le forze che fecero il Risorgimento, il presidente ha evocato quella dello statista. Secondo riferimento, dopo quello ai Costituenti. Il terzo fu, sobrio e laicissimo, al Padreterno stesso. E ci stava bene, fu un piccolo aiuto, per tutti gli specialisti del commento politico curvi sui loro appunti – ad alzare per un attimo lo sguardo. Tanto per cogliere la vastità del disegno. L’ampiezza del suo respiro, e del suo orizzonte temporale. Oltre che per ricordare un’asse portante del discorso: la difesa del creato.

Ai commentatori professionali l’arduo mestiere del commento politico quotidiano. Questa è una riflessione che è insieme personale eppure forse – se Zweig aveva ragione – anche silenziosamente condivisa da molti: anche popolare. A proposito di alto e di basso, non c’è dubbio che il profilo di quel discorso sia alto, al punto da far dimenticare almeno per un momento il dubbio se i ministri di questo governo ne siano all’altezza.

Invece quello che colpisce sui media e sui social, per poco che li si frequenti, è la mancata percezione di questa ”altezza”, vale a dire di questa dimensione che nei grandi spiriti e nei grandi statisti è il disegno ideale che perseguono. Certo, non sappiamo se Draghi si rivelerà uno di loro. Eppure, anche a prescindere da ogni futura delusione, esiste un nesso fra la bellezza di un discorso e la statura non solo intellettuale ma anche morale di un uomo. In questo discorso io ho sentito l’eco di due grandi spiriti liberi: Altiero Spinelli e Adriano Olivetti. Di Spinelli c’è la convinzione che il liberalsocialismo della miglior tradizione (anche) italiana si sostanzia oggi soltanto in prospettiva europeistica e – tendenzialmente – cosmopolitica. Di Olivetti quella che una democrazia riesce a non diventare “kakistocrazia” – il governo dei peggiori – solo attraverso una promozione selettiva del personale amministrativo e politico a ogni livello: che, attraverso grandi scuole e specifici percorsi d’esperienza, restituisca alle istituzioni l’onorabilità e la fiducia di cui debbono godere.

I famosi «momenti fatali» di Zweig sono anche momenti che scompigliano l’unanimità dei convivi. I più fra gli esponenti del “pensiero critico” italiano, e parlo proprio dei molti che siamo, filosofi e umanisti, curiosamente non sembrano vedere il grande gioco delle idee dietro gli eventi. Luciano Canfora ha definito l’europeismo «l’internazionalismo dei benestanti»: se lo mettesse su Facebook, sarebbe inondato di like. Oggi avrebbe torto, dunque, Zweig? Chi ha sentito la potenziale “forza creativa” di quelle parole non è che un’”anima bella”, “benestante” per di più?

 

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